Salute

“I fatti dell’acqua del 1954” nella testimonianza del mussomelese Salvatore Piazza raccontati dalla nipote Barbara Virga

Carmelo Barba

“I fatti dell’acqua del 1954” nella testimonianza del mussomelese Salvatore Piazza raccontati dalla nipote Barbara Virga

Mar, 19/02/2019 - 08:00

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Riceviamo e pubblichiamo:

MUSSOMELI, FATTI DELL’ACQUA DEL 17 FEBBRAIO 1954

TESTIMONIANZA DI PIAZZA SALVATORE (MUSSOMELI (CL) 4.5.1914, VENARIA REALE (TO) 3.5.2007), raccolta da Barbara Virga, nipote, figlia della figlia Calogera Piazza

Premetto che avevo un rapporto speciale con mio nonno materno, Salvatore Piazza, nato a Mussomeli nel 1914, figlio di Salvatore Piazza e Antonina Mingoia, coniugato con Rosaria Territo, figlia di Giuseppe Territo e Calogera Petyx, partito nel 1961 per Torino e mai più ritornato, salvo un paio di brevi visite, fino alla morte avvenuta nel 2007.

Mio nonno ha rappresentato per me, prima generazione di discendenti Piazza nata a Venaria Reale (TO), di sangue esclusivamente siciliano, che fino a pochi anni fa nulla conosceva della Sicilia, la fonte di informazione sulle mie radici, la mia lingua, la mia terra. Per questo motivo ho tenuto nota, dapprima a mente e poi per scritto, complice la mia passione per il giornalismo che è poi diventato il mio mestiere, delle sue testimonianze più importanti: costumi, filastrocche, sagre. Tra queste, di una triste storia in particolare ho cercato invano per diverso tempo riscontri precisi, quando ancora internet non conteneva lo scibile umano, il peso delle distanze fisiche si faceva sentire e forse in troppi preferivano non sollevare il velo su una pagina dolorosa. Tuttavia, intuendone l’importanza, ho conservato gelosamente questa testimonianza, nella convinzione, o forse nella speranza, che un giorno potesse contribuire ad aggiungere un tassello di chiarezza su un evento rispetto al quale “i morti non hanno mai ottenuto vera giustizia, ed anzi altri esseri innocenti hanno pagato un caro prezzo non addebitabile a loro”. Così almeno mi ricordava sempre mio nonno, che non si dava pace per questa circostanza e per non essere riuscito a salvare le persone decedute, sebbene ne avesse tirate fuori dall’inferno molte altre. I riscontri che avevo cercato sono arrivati solo nel 2017, quando mi sono iscritta al gruppo FB dei Mussomelesi gestito dal dott. Giovanni Mancuso e per la prima volta ho visto messo nero su bianco il racconto di mio nonno, con gli stessi particolari e la peculiarità che il racconto di mio nonno presenta altri dettagli forse meno noti, che si incastrano perfettamente con quelli conosciuti e possono essere utili alla precisa ricostruzione dei fatti, o comunque a far uscire questo episodio dalla mera cronaca per evidenziarne anche i risvolti umani, il dolore che afflisse una comunità intera e continua a rappresentare una ferita ancora aperta. Dopo che mi sono palesata sul gruppo FB ho poi fatto un’ulteriore scoperta, cioè che qui a Venaria Reale, il luogo dove sono nata e vivo, abita anche una cugina prima del giovane Giuseppe Cappalonga, la vittima deceduta più giovane della tragedia, la quale ha conservato addirittura la copia del Giornale di Sicilia che parlò dei fatti e che ho avuto modo di esaminare, confrontandola con il racconto testimoniale di mio nonno.

Venendo ai fatti, mio nonno mi raccontava intanto che l’antefatto di questa manifestazione di popolo registrava che il sindaco pare avesse in precedenza promesso ad alcuni delegati che lo avevano contattato di dialogare con la cittadinanza in merito al problema dell’acqua e avrebbe altresì promesso che nell’immediato si sarebbe adoperato per un ritocco al ribasso delle tariffe, in attesa di provvedimenti più drastici. Proprio in quei giorni, infatti, il nonno ricordava che fossero in corso alcune installazioni di contatori da parte del gestore ed erano altresì arrivate delle bollette salate da pagare a tantissimi cittadini. Il nonno, che peraltro aveva già pagato la sua, diceva che quel 17 febbraio i cittadini presumibilmente si aspettavano, dalle promesse precedenti fatte alle loro delegazioni, che il sindaco “uscisse al balcone” per rassicurare tutti sulla prossima soluzione del problema. Solo dopo aver intuito che il primo cittadino non aveva nessuna intenzione di dar seguito alle promesse, sentitisi presi in giro, i manifestanti tentarono di attirarne l’attenzione attraverso qualche lancio di oggetti. Il nonno sosteneva che non ci sarebbe stata una vera sassaiola, ma un episodio isolato e circoscritto a mo’ di scaramuccia, che non sarebbe stato certamente idoneo a giustificare alcuna forma di repressione, se chi ne aveva il potere avesse tenuto i nervi saldi, nonostante la tensione. Tuttavia, lui aveva notato da subito un’aria strana in quel luogo, tanto che quasi subito aveva avuto la felice intuizione di dover uscire dal mucchio dove inizialmente si era collocato e di andare a posizionarsi in una zona più defilata e sicura, oltre la strettoia di Via Vittoria, praticamente al di fuori del perimetro della manifestazione. Aveva notato infatti che le altre due possibili vie di uscita dalla zona del Municipio, dove era assiepata la folla, erano piantonate e bloccate da militari dell’Arma, il che lo aveva indotto alla prudenza. Il fatto che poi la causa di inciampo delle vittime fosse stato un attrezzo, un regolo posto di traverso da un muratore sulla via Vittoria, rimasta quindi l’unica via d’uscita essendo chiuse le altre, gli diede sempre da pensare. Il nonno fu sempre combattuto nel dubbio tra il credere alla fatalità oppure ad una azione preordinata. Ma non seppe mai darsi una risposta, sperò sempre in cuor suo che si fosse trattato della curiosità fatale di un muratore sprovveduto. Quello che il nonno non sapeva giustificare era il lancio dei lacrimogeni che avevano scatenato il panico, che riteneva sicuramente una reazione spropositata rispetto alle azioni poste in essere dai manifestanti e sopra descritte.

La scena che si presentò al nonno, che la vide frontalmente dalla piazza oltre via Vittoria, se non sbaglio Piazza Chiaramonte, fu un ammassarsi di corpi uno sopra l’altro in molti strati. Davanti a quella scena, il nonno cominciò disperatamente a cercare di sfilare quanti più paesani poteva dal mucchio, afferrando braccia e gambe a casaccio. Man mano che li tirava fuori, alcuni rimasti praticamente mezzi nudi per lo sfregamento, tanto il mucchio era fitto, cercava di adagiarli per terra in sicurezza un po’ più in là nella piazza, sincerandosi che respirassero e fossero in ripresa, mentre allo stesso  tempo ritornava velocemente vicino all’ammasso ad estrarre altri corpi, in un continuo andirivieni disperato. Mio nonno non aveva ancora compiuto 40 anni allora, ed era un uomo temprato da sei anni di servizio militare durante la guerra, eppure non si è mai spiegato pienamente dove avesse trovato tutta la forza necessaria per porre in essere quel salvataggio plurimo.  Il nonno ricordava di aver cominciato ad urlare per chiedere aiuto ai passanti e di essere riuscito ad attirare l’attenzione di almeno altri due soccorritori, che giunsero a dargli manforte. Giunto all’ultima fila di corpi, quella schiacciata sul selciato dagli strati superiori, scorse la figura di un’amica di famiglia, la figlia di una signora che abitava in prossimità dell’abitazione dei miei nonni. Si trattava di una giovane donna mamma di tre figli, la signora Vincenza Messina. A quel punto il nonno, preso dalla disperazione, nel tentativo di ottenere aiuto per rianimarla, si avvicinò alla farmacia che era praticamente attaccata alla via Vittoria bussando insistentemente. Il farmacista tuttavia aveva fatto la serrata e rifiutava di aprire. Per la rabbia mio nonno sfondò un vetro con un pugno ma non riuscì ad entrare. Allora si spostò poco più in là sulla stessa direttrice, pensando che il medico che lì aveva studio (o casa , nonno non fu preciso in merito) aprisse per aiutare nei soccorsi, ma anche costui si barricò dentro e non uscì. Il nonno a quel punto, con una mano sanguinante tornò vicino alla signora Vincenza, che gli sembrava respirasse ancora molto flebilmente, e la caricò a spalle portandola al vicino ospedale, dove purtroppo arrivò deceduta. Affidata la signora ai medici il nonno ebbe ancora la forza di tornare indietro perché ricordava di aver riposto in terra numerose altre persone. Fu lì che intercettò la signora Giuseppina Valenza, la più anziana tra i deceduti, caricandosi anche lei a spalle in direzione dell’ospedale. Ma anch’ella non ce la fece.

Nonostante abbia obiettivamente fatto molto ed evitato un numero sicuramente maggiore di morti, il nonno si è sentito in colpa per tutta la vita per non essere riuscito a salvare queste due donne. Ed è sempre stato convinto che se la farmacia ed il medico avessero collaborato nell’emergenza, come loro dovere, i quattro morti si sarebbero potuti forse evitare. Provava ancora maggiore rincrescimento, dal momento che gli dissero poi che la signora Valenza si era avvicinata quasi per caso quel giorno alla manifestazione, prova ne era che aveva lasciato ancora il piatto con la minestra sul tavolo di casa, secondo quanto riferirono al nonno. Non c’è stata una sola volta in cui mio nonno non abbia pianto ricordando quei fatti. Si trattava di un pianto di rammarico per le vite perse, misto a rabbia per tutto il contesto in cui era maturata questa tragedia e per l’ingiustizia che ha portato con sé. Il nonno rimarcava come a suo avviso tanti innocenti avessero pagato con la condanna le colpe di altri rimasti invece liberi ed impuniti.

Nei giorni successivi il nonno, per lo sforzo compiuto, si ritrovò con le spalle entrambe lussate e per molti giorni non poté muoversi dal letto per gli sforzi compiuti nei soccorsi che gli avevano contratto i muscoli, cui si aggiungeva la medicazione al braccio interessato dalla schegge di vetro. Tanto che alcuni vicini di casa, consapevoli del suo gesto eroico, per aiutare mia nonna che aveva a carico cinque figli piccoli, venivano a turno a casa loro a dare una mano e a curare mio nonno con massaggi e attraverso quella pratica che dalle spiegazioni del nonno ho individuato esser la “coppettazione”, consistente nell’appoggiare i bicchieri caldi sulle parti doloranti, in un’epoca in cui i farmaci non erano così diffusi e a portata. Mentre mio nonno era convalescente a casa, il paese veniva interessato da numerosi arresti di presunti tumultuosi. Mio nonno mi diceva di aver temuto di venire coinvolto negli arresti per aver sfondato il vetro della farmacia, considerando anche che le persone fermate in qualche caso gli sembrava addirittura di averle viste invece tra i soccorritori che avevano raccolto il suo grido di aiuto disperato, anche se poi ricorda che per fortuna quelle persone fossero state scagionate. La scena della tragedia peraltro era ben visibile da alcuni notabili del paese che vivevano nella piazza, che mio nonno supponeva avessero assistito al salvataggio di molti da parte sua, testimoniandolo in via ufficiosa alle forze dell’ordine, che per questo forse avevano ignorato mio nonno. Col tempo, il nonno mi diceva di essersi però reso conto che probabilmente lui non fu interpellato  semplicemente perché se qualcuno delle persone soccorse avesse testimoniato circa la sua estraneità ai fatti, essendosi trovato all’esterno dell’area dei presunti tumulti sedati a colpi di lacrimogeni, egli si sarebbe trovato nella posizione di testimone determinante per quanto aveva osservato in precedenza nei pressi del Municipio, tra cui la chiusura delle altre vie di accesso al Comune, risultando scomodo a sfavore di quanti poi non furono chiamati ad assumersi le loro responsabilità. A questa conclusione mi diceva di essere giunto tuttavia molti anni dopo, quando già viveva a Venaria Reale, dove si trasferì con la famiglia nel 1961, alla ricerca di un “mondo giusto dove il pane e l’acqua non mancano per nessuna persona onesta” mi diceva, ed era diventato più consapevole dei diritti degli esseri umani. Ironia della sorte, pochi anni dopo, mio nonno fu vittima di un incidente sul lavoro alla Snia Viscosa, facendo uno di quei lavori duri che facevano gli immigrati in Piemonte, mentre nelle strade campeggiavano cartelli del tipo “non si affitta ai meridionali”. Cadde in una vasca di pulitura a causa delle esalazioni, una tipologia di incidente dall’esito mortale scontato. Già dato per morto dal medico di fabbrica una volta estratto dalla vasca, mio nonno fu tenuto in vita dalla caparbietà dell’infermiera dello stabilimento che, per tutto il trasporto in ambulanza fino all’ospedale, gli tenne la lingua con una pinza perché non la ingoiasse. Caduto in coma, dispensato dai medici, il nonno invece dopo diversi giorni incredibilmente si svegliò. Lui, molto credente, ha sempre pensato che quel miracolo fosse merito dei “suoi” angeli, gli angeli della tragedia dell’acqua di Mussomeli. E se nel 1954 le circostanze gli avevano impedito di portare la propria voce a testimonianza dell’accaduto per contribuire a far luce sulla verità, questa volta ebbe la possibilità, con l’aiuto di un legale, di intentare una delle prime e difficili cause del lavoro contro un colosso industriale. Quella causa, una delle prime vinte da un lavoratore, aprì la strada al riconoscimento delle malattie professionali dei lavoratori e alla garanzia di salubrità e sicurezza nei luoghi di lavoro. Solo poco tempo prima, sua moglie, mia nonna Rosaria Territo, che peraltro al paese di Mussomeli molti anni prima aveva rotto un tabù accogliendo in casa propria una ragazza cacciata di casa per aver “disonorato” la famiglia essendo stata lasciata da un fidanzato ed avendola salvata da un destino all’epoca segnato, aveva compromesso definitivamente i propri bronchi lavorando per una ditta torinese che non forniva presìdi di sicurezza. Proprio mia nonna raccontava, insieme a mia madre, allora dodicenne, come Mussomeli, dopo quel maledetto 17 febbraio 1954 visse giorni, addirittura settimane, praticamente allo sbando emotivo. Oltre ai morti, raccontavano i miei nonni, “c’eravamo tutti noi vivi che andavamo in giro come i fantasmi di noi stessi”.

Oggi, 2019, la sottoscritta Barbara Virga, che ha raccolto questa testimonianza, fa parte delle istituzioni in qualità di Vicepresidente del Consiglio Comunale di Venaria Reale. Si tratta di quelle stesse istituzioni comunali che nel 1954, forse per eccesso di timore o per interpretazione sbagliata del potere, non seppero evitare una tragedia in quel di Mussomeli. Di quei fatti, senza l’interessamento della società civile e di altre istituzioni che non si sono arrese nel voler sollevare il velo dell’oblìo e che ringrazio anche a nome di mio nonno, unico testimone sarebbe rimasto il millenario Castello Manfredonico, arroccato su una montagna come il nido di un’aquila. Per fortuna non è stato così. Mio nonno da lassù è sicuramente felice che la data del 17 febbraio sia stata istituzionalizzata a Mussomeli a perenne memoria di quei morti e di quelle ingiustizie. A quella tragedia penso spesso anche io come tanti mussomelesi, figlia di questa terra che vive a mille e seicento chilometri di distanza, ogni volta che devo prendere una decisione a nome e nell’interesse dei miei concittadini, cercando di essere sempre all’altezza della responsabilità che mi hanno assegnato e del ricordo di mio nonno e di chi perse la vita per un po’ d’acqua.  Venaria Reale, 06/02/2019   In Fede.Barbara Virga”

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