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Una vita attraverso la storia. I novant’anni di Emanuele Macaluso

Michele Spena

Una vita attraverso la storia. I novant’anni di Emanuele Macaluso

Dom, 30/03/2014 - 01:06

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macaluso_emanueleHa attraversato la storia dell’ultimo secolo nei suoi tornanti più drammatici e complessi: Emanuele Macaluso, 90 anni il 21 marzo, nisseno, dirigente del PCI (il più grande Partito Comunista dell’Occidente), oggi è ancora una delle menti più lucide della politica italiana, capace di analizzare con sguardo libero e penna affilata le vicende che disorientano tanti che hanno perduto l’abitudine a coniugare la politica con la capacità di comprendere la complessità.

Figlio di un ferroviere e di una casalinga, studente all’Istituto Minerario di Caltanissetta, che era ancora, nella prima metà del ‘900,  la capitale dello zolfo, negli anni duri della dittatura  sceglie di dire no al regime: nel 1941 entra nel Partito Comunista clandestino, in quella “cellula” dell’opposizione guidata da Pompeo Colajanni e Calogero Boccadutri  intorno alla quale ruotavano altri giovani di grande valore, tra i quali Gaetano Costa e Leonardo Sciascia.

Sarà proprio Boccadutri, l’uomo della miniera, il suo “Virgilio” nella selva oscura della politica di quegli anni difficili, il mitico “arrotino” che Elio Vittorini, dirigente del PCI clandestino, avrebbe rappresentato simbolicamente nel suo libro “Conversazione in Sicilia”.

Prima ancora della fine della guerra, nel 1944, diventa segretario della CGIL, sindacato ancora unitario, organizzato insieme ai cattolici democratici che a Caltanissetta erano rappresentati da Giuseppe Alessi, futuro presidente della regione, che sarà per lui interlocutore-avversario per decenni.

Sono gli anni tumultuosi dell’occupazione delle terre per la riforma agraria, sfidando i poteri secolari del feudo e la violenza della mafia. Macaluso è sulla piazza di Villalba accanto a Li Causi quando don Calò Vizzini guida la sparatoria contro il comizio del leader del movimento contadino siciliano, al quale i contadini avevano partecipato, disubbidendo al diktat del boss.

Quella stagione intensa di lotte popolari lo proietteranno nella grande politica: segretario regionale della CGIL, nel 1951 è deputato regionale, nel 1956 Togliatti lo chiama a Roma, nel Comitato Centrale del PCI, e nel 1958 diventa segretario regionale del Partito Comunista.

foto(4)Da quella postazione avrebbe dato vita alla più spericolata e controversa operazione politica della storia regionale siciliana: il “milazzismo”, il governo autonomista presieduto dal cattolico Silvio Milazzo e sostenuto da comunisti, socialisti, monarchici, Movimento Sociale Italiano e un gruppo di parlamentari in dissenso con la DC ufficiale, che avrebbero dato vita all’Unione Siciliana Cristiano- Sociale, (guidata da un altro nisseno, Francesco Pignatone), mandando la DC all’opposizione.

Intorno a quel tentativo inedito di “laboratorio politico” si era aggregato il consenso dei gruppi imprenditoriali più avanzati della Sicilia del tempo, guidati da Domenico La Cavera, interessati ad un’ipotesi di sviluppo autonomo della Sicilia, non più mercato “coloniale” dell’industria del Nord o terra di emigrazione, ma capace di scommettersi sulla frontiera della modernizzazione anche industriale.

Erano gli anni di Enrico Mattei e del sogno del petrolio siciliano, della sfida mondiale alle multinazionali dell’energia conclusasi tragicamente con l’oscura eliminazione di Mattei in un incidente simulato.

In quel contesto, il progetto del governo autonomista aveva tentato l’azzardo della rottura dei vecchi equilibri politici che in Sicilia, sin dai tempi della strage di Portella della Ginestra, avevano saldato intorno alla Regione gli interessi dei poteri criminali e della mafia. Ma il limite di quell’esperienza, era che veniva in una stagione in cui il conflitto sociale poderoso che aveva animato le lotte dei contadini e dei minatori del dopoguerra, defluiva nel fallimento della riforma agraria e nella crisi irreversibile delle miniere; e il tentativo della “Regione imprenditrice” con gli Enti economici regionali non sarebbe stato in grado di risolvere sul piano delle istituzioni quel conflitto che nella società vedeva arretrare le posizioni del movimento dei lavoratori in un modello di sviluppo economico che non riusciva a fondarsi sul diritto alla terra e al lavoro autentico per tutti, accontentandosi dell’assistenzialismo regionale.

Il nodo politico intorno a cui si sarebbe sviluppata tutta l’esperienza politica di Macaluso, a Roma nella segreteria nazionale del PCI di Togliatti, Longo e Berlinguer, deputato alla Camera e poi al Senato ininterrottamente dal 1963 al 1992,  sarebbe stato proprio questo rapporto complesso tra la modernizzazione economica e sociale del Mezzogiorno e dell’Italia e la difficoltà della politica di sinistra a misurarsi con essa con una visione alternativa a quella dei gruppi di potere dominanti.

Questo il senso della posizione riformista di Macaluso all’interno del PCI, (o “migliorista” come si diceva) insieme a Napolitano: la ricerca di un ancoraggio alla tradizione del socialismo europeo in una realtà politica come quella italiana, segnata dalla “democrazia bloccata” dalla Guerra Fredda, con una DC “condannata a governare” (ed esposta per questo alle degenerazioni del potere) ed una sinistra divisa tra governo e opposizione, ma sostanzialmente priva di un progetto alternativo unitario di ampio respiro.

macaluso unitàLa “svolta della Bolognina” e la trasformazione del PCI in PDS e poi DS lo avevano visto sostenitore del cambiamento, in questa prospettiva di alternativa riformista, che non aveva invece individuato nell’esperienza del Partito Democratico, al quale non ha mai voluto aderire. Così come non era stato tra i sostenitori del “compromesso storico” lanciato da Berlinguer a metà degli anni ’70, con un percorso di avvicinamento alla DC di Aldo Moro, stroncato drammaticamente proprio dall’eliminazione di Moro per mano terrorista.

Giornalista, direttore de “L’Unità” e poi de “Il Riformista”, autore di 18 volumi di storia politica e di politica economica, analista lucido e antiretorico del fenomeno mafioso e dei suoi rapporti con il potere, oggi è uno dei testimoni più autorevoli di una tradizione e di un’esperienza politica che ha saputo misurarsi con le sfide della storia, con le sue luci e le sue ombre,senza perdere il gusto dell’analisi critica e della polemica, e che ricorda alla politica di oggi, nella conclusione  del suo ultimo libro, che “chi prende l’acqua da un pozzo non dovrebbe mai dimenticare chi l’ha scavato”.

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