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Silvia Romano, la conversione: “Ora sono islamica, sono Aisha. E’ una scelta mia”

Grazia Longo - lastampa.it

Silvia Romano, la conversione: “Ora sono islamica, sono Aisha. E’ una scelta mia”

Lun, 11/05/2020 - 09:44

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ROMA. «I primi tempi non ho fatto altro che piangere, poi però mi sono fatta coraggio e ho trovato un equilibrio interiore. Piano piano è cresciuta dentro di me una maturazione che mi ha convinto a convertirmi all’Islam». Il suo nuovo nome è Aisha, come la moglie favorita di Maometto.

Le parole riannodano i fili dei ricordi, il nastro si riavvolge e palesa paure, speranze, una nuova fede religiosa. Silvia Romano, la milanese di 25 anni, cooperante in Kenya di una onlus marchigiana, liberata l’altro ieri dopo 18 mesi di sequestro tra il Kenya e la Somalia da una banda di jihadisti vicini ai terroristi di Al Shabaab, rievoca la sua lunga prigionia nel suo primo giorno di rientro in Italia. Davanti al pm Sergio Colaiocco, responsabile dell’antiterrorismo della procura di Roma guidata da Michele Prestipino e gli ufficiali dei carabinieri del Ros, racconta per tre ore come ha vissuto l’ultimo anno e mezzo della sua giovane vita.

«Non mi hanno mai picchiato, non hanno mai esercitato su di me violenza fisica, sessuale o psicologica. Anzi mi rassicuravano continuamente sul fatto che prima o poi sarei stata liberata. Non mi hanno mai incatenato o tenuta legata. Ero libera di muovermi nei 6 appartamenti dove mi hanno tenuto sequestrata e non ho mai visto in volto i miei carcerieri perché avevano il volto coperto».

Silvia – o dovremmo chiamarla anche noi Aisha? – nega con fermezza di aver sposato uno di loro e allontana tutti i dubbi circolari ieri sui social media a proposito di un sospetta gravidanza, per il semplice fatto che nel video dell’arrivo all’aeroporto di Ciampino si è accarezzata più volte il ventre. «Non sono incinta, nessuno ha mai approfittato di me. Mi hanno sempre portato rispetto. E anche la conversione all’Islam è stata una mia scelta, non ho ricevuto alcuna pressione. Ci sono arrivata lentamente, più o meno a metà prigionia, non è stata una svolta improvvisa». La decisione si è annidata dentro il suo cuore dopo numerose letture del Corano ed è culminata con la Shahada, il rito della testimonianza di fede. «La cerimonia di conversione è durata pochi minuti, in cui ho espresso la mia volontà a diventare musulmana. Ho recitato le formule per manifestare la mia convinzione che non c’è Dio all’infuori di Allah. E così mi sento ancora adesso. Io ci credo veramente».

L’unico libro concesso
Silvia lo nega, ma chissà se a spingerla verso un nuovo credo abbia influito il fatto che l’unico libro che le hanno concesso di leggere i sequestrati sia stato il Corano. «Me lo hanno dato su un computer, scollegato a Internet, in due versioni: italiano e arabo. Io ovviamente lo leggevo in italiano ma in questi mesi ho anche imparato qualche parola di arabo. I miei carcerieri, che erano presenti sempre almeno in tre, mi hanno spiegato le loro ragioni e la loro cultura».

Dall’analisi di quel testo sarebbe, dunque, scaturita la volontà di convertirsi. Oltre al Corano, Silvia ha trascorso molte ore a leggere Wikipedia offline. «Ho letto di tutto, qualsiasi cosa pur di far trascorrere il tempo. Perché è vero che nelle case in cui sono vissuta ero libera di muovermi, ma non avevo niente da fare oltre alla lettura. Dalle finestre provenivano rumori di vita, di gente, anche qualcosa tipo traffico di automobili, per cui ho pensato che fossero delle città. Ma sinceramente non ho idea di dove fossi».

Non sapeva dov’era
Scopre di essere a Mogadiscio solo al momento del rilascio. «Me lo hanno detto i sequestratori, che già due giorni prima mi avevano avvertito che mi avrebbero liberato. “Ti riconsegniamo, preparati” mi hanno detto e poi dopo due giorni di viaggio sono stata consegnata a Mogadiscio».

Il bilancio di quei lunghissimi 18 mesi è quello di un’esperienza tragica «durante la quale, nei limiti del possibile, sono stata trattata bene». Silvia non è apparsa denutrita ed ha sempre avuto la possibilità di consumare i pasti con i carcerieri: «Mangiavamo molta carne, soprattutto di capretto, e verdure. Ma qualche volta mi hanno anche cucinato la pasta». Il pensiero dell’Italia, della sua famiglia, non l’ha mai abbandonata neppure per un momento e le ha dato la forza di andare avanti resistendo alle difficoltà, senza disperarsi.

Mai temuto di morire»

«Non ho mai temuto di morire. A parte i primi giorni in cui ero veramente disperata, ho imparato a credere alla loro promessa di essere liberata».

Sensazione che, fortunatamente, è accresciuta in due occasioni specifiche, quando cioè le hanno girato due video per dimostrare all’Italia che era ancora in vita e che stava bene. «Mi hanno suggerito quello che dovevo dire e io ho eseguito, nutrendo in me la convinzione che un giorno avrei avuto l’opportunità di riabbracciare la mia famiglia».

Una convinzione solida, importante, a cui Silvia si è aggrappata con tutta se stessa per continuare ad andare avanti. La stessa certezza che ha alimentato le speranze dei genitori, Enzo Romano e Francesca Fumagalli, nonostante la paura qualche volta ha oscurato la loro fiducia in un lieto fine.

Come è emerso durante la prima telefonata di Silvia alla madre. «Mamma sono io» le ha detto, sentendosi rispondere: «Oh Dio, ma veramente sei tu?». «Certo, credevi che fossi morta?» e la madre ha replicato «Bè sì, un po’ ho avuto paura».

L’abbraccio all’aeroporto
Ma le paure si sono dissolte nell’abbraccio all’aeroporto di Ciampino. In barba alle misure di distanziamento sociale per il coronavirus Silvia, con indosso lo jilbab, abito verde somalo, guanti e mascherina, ha ripetutamente abbracciato la madre, la sorella, il padre. Anche quest’ultimo non ha nascosto i timori che lo hanno angustiato negli ultimi 18 mesi: «Ci sono stati momenti in cui ho vacillato, ma è stato sempre un sollievo sentire le istituzioni e l’affetto delle persone vicine».

Commovente anche l’abbraccio e il piacere di rivedersi, di ritrovarsi, tra le due sorelle. Con Silvia che un po’ parlava in inglese e un po’ in spagnolo. «Scusami ma è troppo tempo che non parlo in italiano, sono un po’ fuori uso».

E chissà quante cose si saranno dette ieri a tarda sera, all’arrivo a casa a Milano, dopo l’interrogatorio a Roma nella caserma dei Ros guidati dal generale Pasquale Angelosanto. Silvia ha risposto a tutte le domande, presente anche il colonnello Marco Rosi. A partire da quelle del momento del sequestro in Kenya da parte di una banda di predatori. Erano in otto, un’azione probabilmente commissionata dal gruppo islamista Al Shabaab a cui la ragazza è stata ceduta dopo un lungo viaggio verso la Somalia. «Il viaggio è stato piuttosto lungo, ci spostavamo in moto ma anche a piedi. Quando, invece, mi hanno trasferita da una casa all’altra, usavamo l’automobile. Finalmente quell’incubo è finito».

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