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Quando i “prof” per avere una cattedra andavano a Sud. Fatta l’Italia gli insegnanti dovevano fare gli italiani

Giovanbattista Tona

Quando i “prof” per avere una cattedra andavano a Sud. Fatta l’Italia gli insegnanti dovevano fare gli italiani

Mer, 30/01/2019 - 21:21

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Sono 1.574 chilometri quelli che separano Dogliani in provincia di Cuneo da Bivona in provincia di Agrigento. Oggi per Google Maps equivalgono a 17 ore e 8 minuti di auto.
E tanto basta a farcelo sembrare un viaggio infinito.
Immaginiamoci allora cosa dovette pensare il giovane laureato in lettere e filosofia Placido Cerri che, nel 1870, ricevette a casa sua (a Dogliani) la comunicazione del ministero della Pubblica Istruzione del neonato Regno d’Italia, con la quale, con tante felicitazioni, gli si conferiva una cattedra come insegnante di latino e greco e lo si destinava in un liceo appena istituito in un nuovo capoluogo di circondario, Bivona per l’appunto.
Non che Placido Cerri non avesse mai viaggiato. Già si era trasferito a Torino per frequentare l’Università e poi per approfondire i suoi studi di sanscrito era stato a Lipsia in Germania.
Le valigie rifatte dopo il lungo soggiorno tedesco furono spedite nella terra siciliana che da qualche anno Cerri doveva considerarsi non suolo estero ma territorio del proprio Stato.
Un territorio unito più dalle guerre e dalla politica che non dalle strade, dovette pensare il ventisettenne professore mentre si inerpicava verso Bivona a dorso di una mula, cercando di recuperare la coperta che gli faceva da sella e che ad ogni inasprirsi delle salite gli scivolava sotto le gambe.
Mentre si stava completando il processo di unificazione e il Regno sabaudo diventava Regno d’Italia, la legge Casati del 1859 creava quella che oggi identifichiamo come scuola secondaria; un percorso di studi intermedio per formare la nuova classe dirigente, per creare un titolo di accesso alle professioni in una società divenuta più complessa e in uno Stato alla ricerca di una nuova e fedele burocrazia.
Nella nuova concezione della scuola pubblica c’era il nobile desiderio di costruire una nuova comunità nazionale, con una visione comune e con il superamento di quella enorme distanza culturale tra un enorme fetta di popolazione povera e non istruita e i pochi che accedevano agli studi più per abitudine, titolo nobiliare e censo che non per vocazione.
Mettere in moto lo sviluppo della società significa investire nella scuola e nella società. 150 anni fa sembrava più chiaro di adesso. Così come era più chiaro che per fare contare davvero i cittadini regnicoli non bastava dargli il diritto di accedere a ogni forma di rappresentanza politica o di pubblico potere; bisognava superare le limitazioni che di fatto impedivano loro di avere un peso reale nell’esercizio di queste facoltà. E solo una più diffusa e adeguata preparazione culturale poteva consentirlo.
Per incentivare la sfida degli studi, si creò il sistema dei “titoli” scolastici, il documento che si acquisisce al termine degli anni prescritti e che consente di accedere agli uffici pubblici e all’impiego.
La scuola diventava un investimento di prospettiva e il sapere veniva visto come una proprietà da acquisire per trarre utili in termini di prestigio sociale e di carriera.
Per assicurarsi il riconoscimento di un ruolo rilevante era essenziale per i paesi come Bivona, capoluogo di circondario, avere un liceo e lo Stato unitario non poteva negarglielo.
Si stava formando una “borghesia umanistica” che il giovane professor Cerri non doveva vedere di cattivo occhio nonostante le tribolazioni di quel trasferimento, perché chi crede nel “sapere”, vuole elevare la sua persona, aprire i suoi orizzonti e conseguentemente migliorare la società nella quale vive.
Ma tra quella borghesia vi era anche tanta gente che credeva più nel “potere” che nel “sapere” e che pertanto guardava alla scuola come luogo dove declinare il proprio ego, rafforzare il proprio prestigio, raccattare titoli senza studiare per accedere ai “posti” dove mantenere rendite.
Di questo racconta Cerri in un suo breve racconto dal titolo “Tribolazioni di un insegnante di ginnasio”, pubblicato dopo il suo rientro a Dogliani e poco prima della sua morte prematura a 31 anni nel 1874.
Parla di alcuni suoi colleghi, promossi insegnanti avendo alle spalle più dichiarazioni di patriottismo che solidi studi; di altri che si dedicavano ad altre attività e che dalla scuola cercavano di trarre motivi di prestigio personale da far valere in modo clientelare rispetto alla comunità locale; e poi di alcuni allievi convinti in quel contesto che nella scuola lo studio fosse un mero accidente e la preparazione una variabile delle apparenze.
Cerri racconta di un personaggio che qualche giorno prima delle prove scritte (quelle per conseguire il “titolo”) si presentò a lui un personaggio a nome di un suo alunno, uno dei più svogliati e impreparati ma appartenente ad una famiglia di patrioti destinati ad acquisire censo e potere. Gli chiedeva quel signore di dargli “i temi degli esami” così da portarli in tempo al ragazzo.
Cerri gli chiese se stesse scherzando ma il signore gli rispose che non capiva perché dovesse scherzare visto che stava facendo “cosa naturale”.
Cerri replicò dicendo che riteneva naturale fare il proprio dovere e l’uomo continuando a non capire si allontanò.
Il dovere. Il sapere. Il potere. Il volere.
Tutte parole che fanno rima, che sembrano avere un significato chiaro ma che invece in ogni tempo possono prestarsi a molti usi, spesso diversi, spesso equivoci.
Una cosa resta certa.
È dal senso che riescono a dare a queste parole la scuola, i suoi insegnanti, il suo personale, i suoi allievi, che può derivare la crescita di una comunità civile e quindi di uno Stato.
Sempre che ovviamente – ancora oggi e non solo 150 anni fa – vi sia una comunità civile capace di ricordarsi che tutto parte dalla scuola.

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