SAN CATALDO. In occasione del ventiquattresimo anniversario della strage di Capaci in cui moririono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della sua scorta, il sindaco Giampiero Modaffari ha scritto una lunga quanto significativa lettera a tutti gli studenti delle scuole sancataldesi. “Ventiquattro anni fa alle 17,58 il sismografo dell’Istituto di geofisica del Monte Cammarata avvertì i segnali di una scossa sismica, che localizzo nell’Isola delle femmine. Ma non era stato un terremoto. Due carreggiate, quattro corsie del tratto autostradale Punta Raisi-Palermo furono disintegrate da 700 kg di esplosivo ad alto potenziale. Era stato reperito da cave e da bombe inesplose della Seconda guerra mondiale, abilmente confezionato, sistemato sotto il viadotto presso lo svincolo di Capaci e collegato ad un telecomando azionato dalle colline circostanti. Fu in quella data e in quell’istante che le auto del magistrato Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e di tre guardie del corpo – Rocco Di Cillo, Antonio Montinari e Vito Schifani – furono inghiottite nell’ enorme voragine che si aprì nell’asfalto. I tre uomini della scorta morirono subito: i loro corpi furono sbalzati a centinaia di metri nelle campagne attorno e trovati a sera; Giovanni Falcone e moglie ebbero il tempo di arrivare in Ospedale, ma l’emorragia e le lesioni interne ne impedirono la salvezza. Giovanni Falcone, la cui fine oggi ricordiamo, fu un magistrato palermitano che iniziò il suo lavoro nella Pretura di Lentini, per poi passare a Palermo, sua città natale, dove iniziò a studiare il fenomeno mafioso, spolverando i pesanti mucchi di documenti, esaminandoli a dovere e iniziando quello che fu chiamato “metodo Falcone”: capì che i fatti mafiosi non sono solo lupara e che non sono isolati l’uno dall’altro, ma collegati tra di loro in una rete, in un tessuto che unisce omicidi, pizzo, traffici, spaccio, soldi, banche e interessi politici. Seguendo questa intuizione, lavorò insieme ad un gruppo di magistrati: Chinnici, Caponnetto, Borsellino , Di Lello. Formarono insieme quel famoso Pool, che rese possibile il Maxiprocesso nel 1986 e che si concluse con 2000 anni di reclusione per 475 mafiosi e con l’ergastolo per l’intero gruppo dirigente di Cosa nostra. Ma Falcone non aveva solo nemici esterni. Subì l’invidia di colleghi e la distanza delle Istituzioni, dai quali si sentì avversato e delegittimato. Per questo fu facile preda dalla mafia, che lo segnò nel suo libro e non lo dimenticò. Prima prova di quell’ isolamento fu l’attentato del 1989, fortunatamente sventato: 58 candelotti di dinamite erano pronti per lui, nascosti tra gli scogli del mare dell’Addaura, dove aveva affittato un casa per le vacanze. Seguirono poi le lettere anonime, inviate con lo scopo di sporcare la sua figura, di screditarlo, di ostacolarlo nel lavoro condotto con rigore e spirito di servizio. I rappresentanti dello Stato, ai quali le lettere venivano indirizzate, si dimostrarono fragili, incapaci di proteggerlo: non gli diedero gli incarichi che meritava. Fu questo il momento in cui Giovanni Falcone cominciò a morire.
Il giudice Borsellino, che sarebbe stato ucciso dopo due mesi, spiegò: “ Falcone era consapevole che sarebbe stato ucciso, ma non pensò mai di cambiare lavoro, di smettere di indagare, di fuggire, ma accettò una tragedia prevista. Lo fece per amore”.
La sua vita e si suoi sforzi si conclusero un giorno di maggio di 24 anni fa.
E vorrei, in nome suo e di quanti prima e dopo di lui morirono per seguire un ideale, che sia sempre maggio. Vorrei che la lettura di questa pagina di storia non abbia lo spazio di una narrazione, perché sappiamo che non bastano un tema a scuola, un film in tv, una celebrazione pubblica né questa mia lettera a far pensare di aver compiuto il dovere della memoria. Tutto deve passare dalla coscienza, dalle abitudini quotidiane e dalla pretesa all’onestà e al rispetto.
Questo attuale appare un periodo silente del fenomeno mafioso, un momento di tregua: non ci sono spari di lupare, né fragore di dinamite. Ma sarebbe un errore pensare che la scoperta dell’ ovile di Provenzano sia tutto finito. Le organizzazioni mafiose vivono in un sottobosco di tutele e trovano in alto frescura e protezione, però cominciano dai nostri silenzi, dalla nostra superficialità, dai quei piccoli segnali di illegalità, che non ci accorgiamo di compiere. Dietro le mafie di ieri e di oggi ci sono responsabilità collettive. Se da una parte c’è la mafia, dall’altro c’è un comune sentire, sul quale l’illegalità ha costruito il suo potere.
E quando affermiamo con convinzione “lo Stato siamo noi”, dobbiamo renderci conto che è questo NOI che ancora dobbiamo costruire e che in questo NOI dobbiamo trovare la capacità di innamorarci del destino degli altri.
Per questo ci sia proibito dormire o distrarci.
Questo invito voglio rivolgere a me, alle famiglie, agli insegnanti, a quanti abbiamo vissuto quel maggio, convinti solo tardi di avervi consegnato un tempo malato, ostile e ingrato, che solo con fatica potrà essere sanato. Ma soprattutto ai bambini e ai ragazzi: non basta, dicevo, ascoltare una lezione, per saldare un debito, per lavarci la coscienza.
Siate progettualità e risorsa, lievito e sale, portatori di proposte nuove. Ridateci il desiderio di una vita più autentica, rigenerateci per dimenticare stanchezze, delusioni e amarezze. Tutti insieme abbiamo un’eredità da completare.
E se oggi vi sarà chiesto di alzarvi per un minuto di silenzio, ricordate che è meglio parlare, gridare, chiedere e pretendere risposte soprattutto a chi non si è impegnato abbastanza a creare una strada per cittadini onesti. È questo uno dei messaggi più forti fra quelli scritti nei bigliettini appesi a Palermo nell’ albero di Falcone :
“Qui fermati in silenzio, ma appena ti allontani, parla!”.

