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Intervista a Giancarlo Caselli: “Quei miei anni in Sicilia”. La scelta del trasferimento a Palermo, la lotta alla mafia negli anni novanta. “Rifarei tutto senza se e senza ma”

Redazione

Intervista a Giancarlo Caselli: “Quei miei anni in Sicilia”. La scelta del trasferimento a Palermo, la lotta alla mafia negli anni novanta. “Rifarei tutto senza se e senza ma”

Sab, 14/05/2016 - 20:09

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Caselli-Gian-CarloCALTANISSETTA – Ho conosciuto Giancarlo Caselli qualche anno fa a Torino, in occasione della presentazione di un mio libro, Mafia e antimafia, organizzato da un istituto scolastico. Da poco aveva lasciato la Procura di Palermo per altri incarichi

Nato ad Alessandria nel 1939, dopo essersi brillantemente laureato in Giurisprudenza a Torino, ha intrapreso la carriera di magistrato in quella città occupandosi, negli anni Settanta e Ottanta, di indagini sul terrorismo e sulle Br e collaborando anche con il gen. Carlo Albero Dalla Chiesa. Dal 1986 al 1990 è stato membro del Csm. Ha diretto la Procura di Palermo, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, dal 1993 al 1999, nella stagione degli arresti dei boss Bagarella, Spatuzza, Brusca ecc. e dei grandi processi su mafia e politica.

Dal luglio 1999 al marzo 2000 è stato Direttore generale del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Nel 2001 è stato nominato rappresentate italiano a Bruxelles dell’Eurojust, osservatorio  contro la criminalità organizzata. Trasferitosi nuovamente e Torino è stato Procuratore generale presso la Corte d’Appello e, dal 2008, Procuratore capo. Nel dicembre 2013, dopo oltre quarant’anni di servizio, ha lasciato per pensionamento la magistratura, ma il suo impegno continua oggi nell’Osservatorio sulla criminalità in ambito agroalimentare e in altre battaglie per la legalità.  Ha di recente pubblicato Nient’altro che la verità, libro scritto in collaborazione con Mario Lancisi e che racconta la sua storia umana e professionale di magistrato e che si intreccia inevitabilmente con quella del nostro Paese, ma soprattutto della nostra terra. L’uscita del suo nuovo libro mi ha dato l’occasione per porgli qualche domanda, sui quei suoi anni trascorsi in Sicilia.

La sua scelta di venire in Sicilia maturò in un momento particolarmente drammatico, caratterizzato da un attacco frontale della mafia allo Stato (da poco si erano verificati gli attentati ai giudici Falcone e Borsellino). A distanza ormai di tanti anni che ricordi ha, nel bene e nel male, della nostra terra?

Si intrecciano e si mescolano ricordi diversi, ora decisamente positivi ora meno, ora lieti ora no, talora cupi o persino tragici. Penso alla tristissima storia del piccolo Giuseppe Di Matteo, oggetto di una rappresaglia mafiosa in stile nazista per punire il padre che aveva osato rivelare, in un interrogatorio da me condotto, le modalità tutte di esecuzione materiale della strage di Capaci cui aveva partecipato. Certo è che il periodo palermitano ha costituito la mia esperienza professionale più intensa. E dire che in quasi cinquant’anni di magistratura di “mestieri” ne ho fatti tanti: Giudice istruttore a Torino contro il terrorismo delle Brigate rosse; componente del Csm; Presidente di Corte d’Assise a Torino; Capo dell’amministrazione penitenziaria; membro di Eurojust; Procuratore generale e poi Procuratore della Repubblica a Torino. Ma sono i quasi sette anni che ho vissuto a Palermo, a capo di quella procura, che in assoluto hanno maggiormente segnato la mia vita. Per la scelta, molto difficile e tormentata, di chiedere io stesso – per senso del dovere – di essere trasferito nella città che aveva appena trucidato i giudici Falcone e Borsellino, cercando di raccoglierne la pesante eredità. Per le condizioni di “prigionia” (non solo di vita blindata) cui di fatto sono stato costretto, ben consapevole che solo così, con eccezionali misure di sicurezza, si poteva sperare di uscirne vivi. Per la lontananza dalla mia famiglia, rimasta a Torino, con la conseguenza tra l’altro che non ho potuto assistere come avrei dovuto mia madre (nel  frattempo gravemente ammalatasi), come non ho potuto veder crescere la mia prima nipote, Giulia, nata appunto mentre ero a Palermo. Infine, per l’imponente e prezioso lavoro e per gli importantissimi risultati   che tutti insieme (magistrati e forze dell’ordine in particolare) siamo riusciti a realizzare.

agenti Rifarebbe oggi quella scelta, anche alla luce dei tanti fallimenti di quel rinnovamento etico-morale che ci si aspettava in Sicilia in quella fase di speranze?

Rifarei tutto, senza se e senza ma. Perché, al netto di ogni falsa modestia, sono convinto di aver contribuito (con gli altri magistrati della procura) a salvare la democrazia italiana. Ricordiamo le parole di Nino Caponnetto al funerale di Paolo Borsellino. “E’ tutto finito, non c’è più niente da fare”. Lo pensavamo tutti. Eravamo in ginocchio, in attesa del colpo di grazia finale che avrebbe trasformato la nostra democrazia in qualcosa di orribile, uno stato-mafia, un narco-stato. Ma siamo riusciti a rialzarci. Tutti quanti insieme. I politici unanimi nell’approvare due leggi che si sono rivelate potentissimi strumenti di contrasto del crimine organizzato (pentiti e 41 bis); le forze dell’ordine e la magistratura che anche grazie a quelle leggi hanno riacquistato efficienza ed entusiasmo; la Palermo della partecipazione attiva, ad esempio con le lenzuola bianche ai balconi e alle finestre, per chiedere pulizia e trasparenza, in appoggio al recupero di legalità contro criminalità e malaffare. Tutti insieme – ripeto – abbiamo alzato un argine e non siamo precipitati nel baratro senza fondo entro cui la mafia ci voleva cacciare. Quindi non parlerei di fallimento, ma di una vera e propria resistenza vittoriosa. Se poi, dopo due o tre anni, qualcuno ha cambiato registro e ha preferito non concludere una guerra che era possibile vincere, resto convinto che noi (noi magistrati e forze dell’ordine) abbiamo fatto tutto il nostro dovere. E se la democrazia (pur con le sue fragilità) non fosse sopravvissuta, se il potere criminale mafioso l’avesse spazzata via, etica e  morale sarebbero diventate parole assolutamente prive di senso, mentre oggi restano obiettivi ancora possibili.

Che cosa, secondo lei, avrebbe dovuto fare – e non ha fatto – la classe politica e dirigente siciliana?

Purtroppo il sistema mafioso permeava (allora ancor più di oggi) il sistema sociale e politico. Perversamente  logico  che  coloro che cercavano di stabilire la legalità  fossero guardati  male  una volta  esaurito l’entusiasmo del vittorioso contrasto del “dopo stragi”. Guardati con ostilità anche dalla classe politica e dirigente non collusa o connivente. Anche dalla borghesia ricca. Anche da quella colta. Ed ecco le campagne martellanti e denigratorie per il recupero di una “vita normale” impedita dalla “troppa” legalità. Con effetti devastanti anche sulla gente comune, che credo si paghino ancora oggi. In sostanza, la classe politica e dirigente siciliana dopo una breve parentesi ha preferito rientrare quasi del tutto negli schemi del passato.

 

carlo-alberto-dalla-chiesa1Riscontra delle responsabilità nella gente in quel declino morale, sociale ed economico che persino un’esperienza di annunciato rinnovamento come quello dal governatore Crocetta, non ha affatto bloccato?

Difficile e ingiusto puntare il dito sulla responsabilità della gente. Uno dei passi più noti dell’intervista di Dalla Chiesa a Bocca del 10 agosto 1982: “Ho capito una cosa molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati”. In altre parole, se i diritti fondamentali dei cittadini non sono soddisfatti, i mafiosi li intercettano e li trasformano in favori che elargiscono per rafforzare il loro potere. Così la mafia si rafforza sempre. E se è indubbiamente vero che si sono fatti dei passi avanti e che  non tutti i politici sono eguali (anzi), è altrettanto vero che di strada – nella direzione indicata da Dalla Chiesa – ne resta da fare ancora tantissima.

Lei, penso, continui a seguire, seppur dal suo Piemonte, le vicende siciliane; ad esempio la vicenda di Lucia Borsellino o i tanti casi di corruzione pubblica di cui giornalmente scrivono i mezzi di informazione. Che idea si è fatto in generale?

La corruzione è un problema nazionale. Va però vista come una articolazione della illegalità economica complessiva, che comprende anche l’evasione fiscale e l’economia mafiosa. Il business è di 120 miliardi di euro all’anno per l’evasione (cifra proclamata dal Capo dello Stato nel discorso di fine anno), 60 miliardi per la corruzione (lo dice la Corte dei conti) e 150 miliardi  per le mafie (stima per difetto). Totale: 330 miliardi di euro rapinati alla collettività nazionale ogni anno, mentre crescono ovunque la povertà assoluta e quella relativa. L’economia illegale dunque ci sottrae una montagna di risorse, che se le avessimo, anche solo in parte, vivremmo molto, molto meglio. Per cui ogni recupero di legalità è un recupero di ricchezza, un passo avanti per la soluzione dei gravi problemi economico-sociali che ci affliggono. La battaglia per la legalità è dunque battaglia per la giustizia sociale. Riguarda l’intera nazione. Per quanto concerne Lucia Borsellino, ho già avuto modo di manifestare solidarietà e affetto incondizionati per la vergognosa vicenda di cui è stata vittima.

Quale, secondo lei, la strada da seguire per l’inizio di una possibile stagione di rilancio e di rinnovamento per la Sicilia; da sempre annunciati e mai realizzati?      

La strada da seguire secondo me deve ispirarsi al ricordo e all’insegnamento delle vittime della violenza mafiosa. Sappiamo che l’elenco di queste vittime (che rappresentano per la Sicilia un vanto tanto doloroso quanto incalcolabile) è purtroppo infinito. Spesso ci siamo detti che se hanno dovuto morire è anche perché lo Stato, anche noi cittadini, non siamo stati sino in fondo quel che avremmo dovuto (e dovremmo) essere. Loro hanno visto la sopraffazione, la ricchezza facile e ingiusta, la compravendita della democrazia, lo scialo di morte e violenza, il mercato delle istituzioni. E non si sono voltati dall’altra parte. Hanno cercato la giustizia. Per questo sono morti. Noi troppe volte abbiamo subito e subiamo, invece di spezzarlo, il giogo delle mediazioni e degli accomodamenti. Non ci siamo scandalizzati abbastanza  dell’ingiustizia. Non siamo stati  e non siamo abbastanza “vivi”. Ecco, occorre tornare ad essere “vivi” .  Trovare il coraggio di essere davvero “vivi”.