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Caltanissetta piange Mario Arnone: “Un maestro della Politica”

Michele Spena

Caltanissetta piange Mario Arnone: “Un maestro della Politica”

Sab, 30/01/2016 - 13:43

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ArnoneCALTANISSETTA – La politica ha saputo generare maestri, educatori del popolo lavoratore e dei gruppi dirigenti di quell’intellettuale collettivo che è stato, come scriveva Gramsci, il Partito Comunista Italiano.
Mario Arnone è stato uno di questi maestri, nella sua vita dedicata alla politica e alla sua professione di medico vissuta con la stessa passione. Un esempio di dedizione, di studio, di approfondimento dei problemi, di capacità di iscrivere la vita quotidiana del territorio e della sua gente nell’orizzonte della grande storia, coniugando a livello alto interessi e valori.
Primo tra tutti l’onestà: una cifra assoluta, non negoziabile, in tutte le sue sfumature. Un disinteresse totale rispetto alle “comodità” che la frequentazione dei luoghi istituzionali poteva assicurare, e ha assicurato a tanti.
Lui no. Da deputato regionale aveva scelto di abitare in roulotte, non con lo snobismo di un Diogene contemporaneo, ma per l’autenticità del voler lavorare in quel ruolo con dedizione totale, senza distrazioni. E senza vivere quella condizione come un privilegio.
Lui che da giovane medico comunista aveva guidato per anni una spider con la stessa naturalezza non esibita, così come con grande serietà frequentava le assemblee dei minatori, il più amato tra i dirigenti politici dagli zolfatai della città, confrontandosi con la condizione umana dei lavoratori più emarginati, entusiasta di mettere a disposizione delle loro battaglie di riscatto la sua intelligenza, la sua preparazione, la sua cultura sconfinata, le sue capacità di relazione.
Ha fatto parte di quella generazione di intellettuali conquistati all’impegno politico dalla stagione delle lotte dei contadini e degli operai, che hanno saputo imparare la vita da quei lavoratori spesso analfabeti con il loro carico di dolore, di sfruttamento, di ingiustizie subite. E che hanno saputo rappresentarli, senza tradirli, mai. Anche quando la mutazione genetica della società del lavoro ha logorato la forza della politica di immaginare un futuro diverso, e di lottare per realizzarlo.
Consigliere comunale per tante legislature, capogruppo di un’opposizione che nella città in cui la DC aveva spesso la maggioranza assoluta non cadeva mai nella provocazione facile della propaganda, ma sapeva incalzare, proporre, destrutturare le trappole clientelari, svelare le speculazioni, denunciarle con forza, indicare soluzioni alternative. Non “emendamenti” ma intere delibere, relazioni, dossier, facendo del Consiglio Comunale un luogo importante, dove si poteva sempre imparare qualcosa ascoltandolo. E dove abbiamo avuto la fortuna e il dono di imparare da lui come si sta nelle istituzioni, in che cosa consiste la serietà dell’impegno politico, di quanto studio c’è bisogno prima di parlare e di proporre. E mai “a titolo personale”.
Non solo tattica, ma sostanza della politica. Passione civile e tensione morale, rispetto per chi si rappresenta, senza pensare mai di utilizzare i voti che si prendono come pacchetti azionari per contrattare in un consiglio di amministrazione.
Eletto per due volte alla Camera dei Deputati, (partecipa alla stesura della riforma sanitaria del 1978) quando la mafia uccide Pio La Torre si dimette per consentire a Domenico Bacchi, il suo più vicino collaboratore, di entrare in Parlamento al posto suo. Un gesto impensabile per i politici di oggi.
La dimensione pubblica della vita sociale, il bene comune sono stati sempre l’orizzonte in cui inquadrava i problemi. Questo il suo tratto “ideologico”, non negoziabile. Con questo tratto ha guidato per anni battaglie memorabili contro la speculazione edilizia nella nostra città, inflessibile, inviso ai gruppi di potere ma sempre rispettato anche dagli avversari politici per la sua inattaccabile coerenza. Ha sostenuto campagne di stampa, denunce difficili contro il malaffare e le infiltrazioni mafiose, come nel caso della metanizzazione e del reticolo di società di comodo che, seppe dimostrare anche con la conferma delle indagini giudiziarie, facevano capo all’entourage di Ciancimino.
Un combattente per la legalità, in anni in cui le centrali dell’illegalità si annidavano bene al centro dei sistemi di potere. A tutti i livelli e molto pericolosamente per chi le sfidava. Ma senza facile giustizialismo, badando alla sostanza politica e al bene comune da difendere piuttosto che alle pieghe del codice penale. Che lasciava agli avvocati.
L’ironia e la capacità di sorridere lo hanno accompagnato fino alla fine della sua vita lunga e generosa, regalata alla causa dei lavoratori e dei loro diritti. Un’ironia sorridente, mai velenosa. Accompagnata al gusto del confronto politico con chi non la pensava come lui, fuori e dentro il partito, e soprattutto del confronto con i giovani. Mai paternalista o “dottorale”, ma pronto ad accogliere le critiche, anche aspre, senza suscitare in nessuno timori reverenziali, ma sempre grande rispetto. Polemizzare con lui significava crescere, elevare il livello delle argomentazioni, sapere ragionare con lucidità e senza retorica, affinare lo stile. E non solo a parole, ma nella coerenza della testimonianza di vita.
Quella forza coerente con cui ha saputo affrontare, sorridendo, anche gli ultimi anni difficili segnati dalla malattia, con il coraggio dei giusti, che sanno di avere costruito un patrimonio inestimabile, immateriale ma resistente, un patrimonio morale e politico che si può tramandare e diffondere, quando c’è una generazione nuova capace di accoglierlo e di portarlo avanti.