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“Un bambino in fasce…E che bambino!”, di Rocco Gumina

Redazione

“Un bambino in fasce…E che bambino!”, di Rocco Gumina

Dom, 13/12/2015 - 17:24

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CALTANISSETTA – Riceviamo e pubblichiamo.

La morte non ha molto da insegnare ai vecchi, ma un bambino in fasce! E che bambino! Fra poco comincia il mondo (Georges Bernanos, Sotto il sole di Satana, 1926).

Fra i disgraziati effetti delle recenti stragi terroristiche di Parigi bisogna annoverare, in Italia, anche la deriva del dibattito sulla rilevanza culturale e identitaria del presepe il quale, non dimentichiamolo, permette di ricordare ai credenti il mistero del Dio onnipotente che diventa uomo per la salvezza dell’umanità. Le decisioni di qualche dirigente scolastico, il frastuono di alcuni politicanti, le sviolinature degli atei devoti e dei credenti “duri e puri” inducono alla riflessione sull’importanza della simbolica che la natività può ancora oggi immettere nella nostra società.

Senza alcun dubbio, il cristianesimo – in ogni sua variante e declinazione storica – è andato di pari passo con la cultura. Infatti, il cristianesimo accoglie la cultura del tempo per indirizzarla verso il mistero che professa al mondo rifiutando tutto ciò che direttamente o implicitamente nega il medesimo mistero. Da ciò deduciamo che la relazione fra fede e cultura è di vitale importanza, pertanto non vi è reale fede priva di un legame storico, culturale e sociale. Tuttavia, non possiamo affermare la stessa cosa invertendo i fattori. Ovvero, non si può parlare di un cristianesimo culturale in assenza di fede. Una cultura cristiana priva di fede è solo una delle tante ideologie destinate al tramonto all’avvio della prima metamorfosi culturale.

Se tale ragionamento è vero, occorre porsi alcuni quesiti fondamentali: possiamo utilizzare la natività come icona della nostra identità occidentale? La natività, che mostra la grandezza dell’azione di Dio per l’uomo, può sintetizzare la cultura e l’operato di una società – e dei suoi rappresentanti – che non professano quella fede nel Signore della vita fattosi uomo? Si può utilizzare il presepe per sancire il confine fra il “noi” occidentale e il “loro” musulmano? A mio parere, la risposta a tali quesiti non può che essere negativa e per questo motivo ci si può definire cristiani solo se è avvenuta un’opzione radicale nella singola coscienza alla luce dell’incontro con il Signore della storia che si palesa, nella natività, con una simbolica incomprensibile agli occhi delle glorie, delle potenze e dei ragionamenti di questo mondo.

A questo punto, è opportuno chiedersi cosa abbia da offrire – alla vecchia e stanca Europa – l’immagine di un bambino in fasce che viene al mondo in una situazione di precarietà. Per i credenti, la natività ogni anno offre la possibilità di ricordare che, in Cristo Gesù, il mondo può ricominciare realmente daccapo poiché solo Lui è in grado di “fare nuove tutte le cose” (Ap 21, 5). L’assoluta novità dell’annuale – e perciò ripetitivo – ricordo della natività ci invita a ricominciare e quindi a sperare nella possibilità del cambiamento. Nel 1926, Bernanos scriveva che “la morte non ha molto da insegnare ai vecchi” ma un “bambino in fasce” consente al mondo di cominciare di nuovo. Fuor di metafora, la strage terroristica di Parigi – produttrice di morte – non può trasmettere nulla alla vecchia Europa. Invece, ogni anno la natività dona la possibilità di pensare che tutto può ri-cominciare dall’inizio, proprio come la vita di un bambino in fasce. Tuttavia, tale ri-cominciamento è possibile poiché è un dono all’Alto e dall’Altro che non è a disposizione delle facoltà, delle politiche e delle tecniche umane. Un dono comprensibile esclusivamente dove fede e cultura si muovono insieme. Dunque, il ricordo della natività ci consente di riformulare il celebre detto crociano in questi termini: possiamo dirci cristiani solo se intimamente lo abbiamo scelto.

Rocco Gumina

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