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Ordinarie storie di eroi “quotidiani”, il chirurgo paralizzato che opera con l’esoscheletro: “Sono diventato un dottore hi-tech”

Redazione

Ordinarie storie di eroi “quotidiani”, il chirurgo paralizzato che opera con l’esoscheletro: “Sono diventato un dottore hi-tech”

Mer, 06/12/2017 - 17:13

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Marco Dolfin, 36 anni, era rimasto paralizzato alle gambe dopo un incidente in moto. Lo aiuta una specie di carrozzina verticale che lo tiene in piedi davanti al tavolo operatorio: “Quando i pazienti mi vedono hanno una strana luce negli occhi”

“Quando entro in sala operatoria e i pazienti capiscono che sarò io a operarli hanno sempre una luce strana negli occhi. E non capisco se è per l’effetto dell’anestesia o perché mi vedono arrivare in carrozzina”. Da sei anni, Marco Dolfin, chirurgo ortopedico dell’ospedale San Giovanni Bosco, ha una vita costretta sulla sedia a rotelle. Una vita che talvolta dipende dagli altri, anche per piccole cose. Ma quando è in sala operatoria, questo dottore di 36 anni, torna a essere quello di sempre. Concentratissimo davanti al lettino. Con le mani ferme e dritto come un fuso. Sì, in piedi. A sorreggerlo è una sorta di esoscheletro fabbricato per lui dai tecnici un po’ visionari dell’Officina ortopedica «Maria Adelaide». «In effetti si tratta di un ausilio particolare. È una carrozzina verticalizzabile che posso governare con un telecomando e mi permette di continuare a fare il lavoro che ho scelto». Lo dice perché la sua è una famiglia di medici. Papà e sorella ginecologi, la mamma pediatra. Il giorno dell’incidente stava correndo in ospedale in moto in anticipo rispetto all’orario per dare una mano al collega in turno. Seconda settimana di lavoro dopo aver concluso la specializzazione, un mese dopo il matrimonio. Poi lo schianto, in via Botticelli. A trecento metri dal pronto soccorso. «Lì ci sono arrivato, da paziente però», racconta.

 Mesi di riabilitazione. «Detto così è quasi comico, ma all’inizio i miei colleghi non hanno capito che ero io quello da curare. Dal punto di vista medico, invece, la situazione è stata subito chiara. Quando mi sono svegliato, dopo l’operazione, non sentivo più le gambe. Da esperto, ho capito immediatamente, anche se in parte hanno provato a tenermi nascosta la verità. Cosa ho provato? Ero distrutto, come tutti. Ho pensato a tutto ciò che non avrei più potuto fare». Lavorare, per esempio. Ma dopo mesi di riabilitazione nell’Unità spinale della Città della Salute e a un anno dall’incidente arriva il momento di rientrare in reparto. In realtà un modo per continuare a fare il chirurgo ci sarebbe: operare ai piedi o alle mani, interventi che si possono eseguire anche da seduti. Ma accontentarsi non è una parola contemplata nel dizionario di chi fa un lavoro che più che altro una passione.
Gare di nuoto alle paralimpiadi. «Sì, io volevo lavorare sulle protesi al ginocchio o all’anca, sui traumi al bacino. Serve molta forza e stando in sedia a rotelle è impossibile». Così, a Natale 2012, per Dolfin arriva la carrozzina verticale per la sala operatoria, a cui è dedicato il reportage fotografico di Francesco Armillotta, vincitore del primo premio del concorso Inail «Scatto inSuperAbile». «I miei colleghi e la direzione dell’ospedale mi hanno sempre sostenuto. Certo, subito pazienti e familiari sono un po’ straniti, ma man mano che parlo di questioni mediche, la mia condizione di salute finisce sullo sfondo». In primo piano, per Dolfin, ci sono semmai le gare di nuoto. Nel 2016 ha partecipato alle Paralimpiadi di Rio, conquistando la medaglia di legno che punta a migliorare alla prossima edizione dei Giochi. E poi i suoi due gemellini, arrivati nel 2014. (di Lorenza Castagneri, fonte corriere.it)