Salute

Lima mafia e Dc, 30 anni fa spari sulla Prima Repubblica

Agi

Lima mafia e Dc, 30 anni fa spari sulla Prima Repubblica

Agi |
Sab, 12/03/2022 - 10:38

Condividi su:

Il killer che uccise Salvo Lima, l’uomo alto, descritto praticamente come gigantesco dai pochissimi testimoni oculari che ebbero il coraggio di parlare, finito il proprio “lavoro” di quel mattino del 12 marzo 1992, poco dopo le nove si sposto’ di poche centinaia di metri: da via delle Palme, a Mondello, dove aveva appena assassinato Lima, a una strada non lontanissima, via Aiace, dove sulla carta Francesco Onorato doveva svolgere lavori veri, edili, per un complesso in cui c’era la villa, fra gli altri, dell’ex vicesindaco della Primavera di Palermo, Aldo Rizzo. Quale migliore alibi era possibile per un uomo che aveva appena ucciso il potente dei politici potenti in Sicilia, il proconsole di Giulio Andreotti, l’eurodeputato che se non proprio tutto, molto poteva in un’Isola in cui la sua Dc comandava pressoche’ indisturbata?

La disperata quanto inutile corsa per tentare di sfuggire ai killer di Cosa nostra non salvo’ la vita a Salvatore, per tutti Salvuccio o Salvo Lima: e fu anche la metafora della parabola finale di un’intera classe politica inquinata e ritenuta al servizio di una Cosa nostra ben diversa da quella attuale. Feroce, sanguinaria, praticamente impunita. Onorato, poco piu’ che trentenne, uomo d’onore di Partanna Mondello, giocava in casa, nella borgata marinara preferita dai palermitani: la moto su cui viaggiava era guidata da Giovan Battista Ferrante, un ragazzo sveglio e dinamico come “Ciccio”, che era atletico anche perche’ tirava di boxe. Ferrante era di San Lorenzo, altro mandamento che seguiva senza se e senza ma la linea dura dei falchi corleonesi di Toto’ Riina. E nemmeno la scelta di affidare una missione di morte cosi’ importante e fortemente simbolica a questi due gruppi mafiosi fu casuale.

Era la vendetta della mafia, quel delitto. E a colpire doveva essere l’ala piu’ ortodossa e allineata dell’organizzazione. Onorato sparo’ una prima volta contro Lima mentre la Opel Vectra guidata da Leonardo, detto Nando, Liggio, assessore provinciale, era ancora in movimento. La moto da Enduro accosto’ l’auto in via delle Palme e Onorato esplose un paio di colpi diretti al lato passeggero. Verso Lima, che fu ferito di striscio a un fianco. Sul sedile posteriore c’era il professore universitario Alfredo Li Vecchi, paralizzato dalla paura come gli altri due: colpito da un ictus esattamente venti anni dopo, e’ morto di recente. Lima capi’ immediatamente cosa stava accadendo e quando vide che la moto stava invertendo la marcia disse un paio di parole: “Tornano, tornano!”.

Scese precipitosamente, mentre i suoi amici, pensando di essere comunque spacciati, rimasero a bordo dell’auto. Lima scappo’ sul marciapiede, il Loden verde che portava sempre sulle spalle volo’ via. Era anche lui alto e imponente, ma era ferito e aveva poco piu’ di sessant’anni: troppi per sfuggire a un giovane come Onorato, che lo raggiunse, pianto’ le gambe leggermente divaricate a terra e impugnando la pistola con entrambe le mani esplose un paio di colpi che fecero stramazzare al suolo, faccia a terra, Lima.

Poi il macabro rituale del colpo di grazia. Tornato indietro, del tutto indisturbato, il killer vide Li Vecchi e Liggio raggomitolati accanto a un cassonetto. L’ordine era di fare piazza pulita, per fare terrorismo ma anche per non lasciare testimoni. Onorato, che poi, come Ferrante, si penti’ e inizio’ a collaborare, disse di non avere rispettato fino in fondo la consegna, perche’ impietosito da quelle due figure inermi e spaventate a morte. Il tentativo di fuga seguito a quel delitto epocale non risparmio’ la classe politica trasversale, non solo democristiana, rappresentata da Lima.

Qualcuno si salvo’, qualcun altro riusci’ a riciclarsi, ma nel complesso la Prima Repubblica siciliana fini’ quel 12 marzo di trent’anni fa, cosi’ come nel resto d’Italia l’arresto di Mario Chiesa del 17 febbraio, sempre del 1992, aveva segnato l’inizio della fine della classe politica che aveva prosperato grazie a Tangentopoli. Il delitto Lima avvenne in una occasione che apparve simbolica e non casuale, perche’ Lima stava andando al Palace Hotel a vedere la sala in cui il Divo Giulio, il suo dante causa, Andreotti, avrebbe dovuto parlare durante la campagna elettorale per le politiche del 5 aprile. La mafia, Toto’ Riina, il cognato Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Bernardo Provenzano – tutti all’epoca latitanti e impuniti – volevano farla pagare a entrambi.

Il maxiprocesso, nonostante le promesse (o le speranze dei boss) della “bolla di sapone” in cui si sarebbe dovuto risolvere, era stato una Waterloo. L’associazione, il 30 gennaio del ’92, quaranta giorni prima, aveva straperso, le non poche condanne erano state confermate, l’impunita’ era bell’e andata e con essa l’immagine di una Cosa nostra invincibile. Troppo, per i viddani di Riina, abituati alle insufficienze di prove e ai processi che si risolvevano col nulla di fatto. Lima e Andreotti furono visti come i traditori. Non solo loro: altri politici sarebbero dovuti morire ma la commissione di Cosa nostra si era data delle priorita’. Falcone e Borsellino, nemici mortali al pari di chi aveva fatto (o lasciato intendere di fare) promesse non mantenute. E la strage di Capaci, compiuta mentre Andreotti era li’ li’ per diventare presidente della Repubblica, fu il secondo segnale del “ringrazio” di un’associazione criminale dalla memoria di elefante.

L’ultimo atto legato a quella logica distruttrice fu l’omicidio di Ignazio Salvo, commesso nella sua villa di Santa Flavia (Palermo). Un altro superpotente, stavolta nel campo delle esattorie, fu assassinato da due corleonesi doc, Brusca e Bagarella. I conti furono saldati tutti in una volta, mentre lentamente l’opinione pubblica siciliana, scossa dalle stragi della primavera-estate precedente, si rendeva conto della necessita’ di spazzare via, assieme alla politica inquinata, anche gli inquinatori, i macellai della mafia.

Pubblicità Elettorale