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Antonio Saetta, la fermezza di un uomo riservato che faceva paura a “cosa nostra”

Redazione

Antonio Saetta, la fermezza di un uomo riservato che faceva paura a “cosa nostra”

Gio, 25/09/2014 - 00:42

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imageCALTANISSETTA – A Canicattì non si sapeva nemmeno che Antonino Saetta era un magistrato così importante.

I suoi concittadini, che pensavano di sapere tutte le chicchere del paese, se lo sentirono raccontare il 25 settembre 1988 dalla televisione che dava la notizia che “il Presidente Saetta” era stato uccisoinsieme al figlio Stefano, mentre rientrava da Canicattì a Palermo, alle ore 22,40, alla guida della sua autovettura Lancia Prisma lungo la strada a scorrimento veloce Agrigento-Caltanissetta.

Ma qualcuno forse sapeva che Antonino Saetta era stato Presidente della Corte di assise di Appello a Caltanissetta e si era occupato della strage di via Pipitone Federico dove il 29 luglio del 1982 avevano trovato la morte il Consigliere Istruttore di Palermo, Rocco Chinnici, il portiere del suo stabile e gli uomini della sua scorta.

Tra gli imputati vi erano gli appartenenti alla famiglia Greco di “Ciaculli”, all’epoca al vertice di “cosa nostra” palermitana. Il processo si era concluso con un aggravamento delle condanne riportate dagli imputati in primo grado.

Di certo a Canicattì qualcuno sapeva che, mentre stava trattando quel processo, Peppe Di Caro, uno degli esponenti mafiosi di maggior rilievo di quel paese, gli aveva fatto pervenire una segnalazione tramite una terza persona affinchè trattasse con riguardo i fratelli Greco.

Dissero a Saetta che doveva stare attento perché si trattava di poveri innocenti, onesti lavoratori e non valeva macchiarsi l’anima comminando una condanna ingiusta.

Ma il magistrato rispose con fermezza.

Dopo che fu emessa dal Collegio presieduto da Saetta la severa sentenza di condanna nei confronti degli imputati per la strage, a distanza di poco meno di un anno, venne appiccato il fuoco in un villino della famiglia del magistrato in territorio di Carini.

Antonino Saetta, alla Corte di Appello di Palermo, si occupò anche del processo riguardante l’omicidio del Capitano Basile e la Corte da lui presieduta ribaltò la pronuncia assolutoria emessa in primo grado che tanto clamore e molti fondati sospetti aveva generato. Anche in quel caso senza risparmio e senza ritegno gli esponenti di “cosa nostra” sottoposero a pressioni inaudite i magistrati togati e i giudici popolari che si occuparono del caso.

Una sentenza di condanna a carico degli imputati dell’omicidio Basile fu annullata dalla Corte di cassazione, presieduta da Corrado Carnevale per omesso avviso ai difensori degli imputati della data dell’udienza in cui si era proceduto all’estrazione dei giudici popolari. Era il 23 febbraio 1987 e in conseguenza di questa decisione, che afferma un principio non accolto dalla molta parte della giurisprudenza precedente, veniva disposto il rinvio alla Corte di Assise di Palermo per un nuovo giudizio.

Frattanto Antonino Saetta veniva trasferito proprio in quella sede e veniva designato quale Presidente della I sezione della Corte di Assise di Palermo, quella che avrebbe poi potuto trattare quello stesso giudizio di rinvio.

Saetta aveva richiesto di essere assegnato in realtà ad altra sezione penale ordinaria.

Tuttavia nessuno dei magistrati che potevano avere titolo ad assumere le funzioni di Presidente della I sezione della Corte di Assise di Appello aveva chiesto di esservi assegnato; anzi, come emerge da un’attestazione di cancelleria dell’epoca, tutti, debitamente interpellati, dichiararono di non aspirare a quell’incarico, pure formalmente molto prestigioso.

Dopo avere appreso della sua designazione, Antonino Saetta presentò al Consiglio Giudiziario e al Presidente della Corte di Appello una nota che oggi sembra profetica.

imageScriveva Saetta il 18 giugno 1987:

“Il sottoscritto, che proviene da Caltanissetta, ove per oltre due anni ha presieduto quella Corte diAssise di Appello, che tra gli altri ha trattato il noto processo di mafia relativo alla strage Chinnici, processo difficile, sofferto e di particolare impegno, avrebbe gradito non continuare a trattare procedimenti di competenza delle Corti di Assise, senza con ciò pretendere di sottrarsi al proprio dovere. Non si vede perché, pur essendovi la possibilità di essere destinato ad una sezione penale ordinaria, oggi debba invece essere assegnato alla Corte di Assise di Appello, tanto più che il sottoscritto, appunto per avere trattato quale Presidente della Corte di assise di Appello di Caltanissetta il grave processo di mafia suindicato, si presenta con una connotazione che lo espone a rischi maggiori di altri.”

A Canicattì non lo sapevano di avere un concittadino che sarebbe divenuto un eroe.

Ma Saetta l’eroe non voleva fare proprio fare.

Eppure quando capì che la Corte di Assise doveva presiederla lui e caricarsi di tutti i rischi lo fece. Con amarezza ma senza esitazione.

Frattanto gli uomini di “cosa nostra” avevano cercato di avvicinare, seguendo un loro consueto metodo tutti i giudici popolari. Ma Saetta se ne accorse subito.

Li vedeva assai poco sereni, talvolta fortemente impauriti; sollevavano questioni non pertinenti con affermazioni disancorate dalle prove acquisite e con conseguenti effetti ostruzionistici, tali da indurlo – come confidò al figlio Roberto – ad esercitare con decisione i suoi poteri presidenziali. Dinanzi a queste difficoltà, amplificatesi negli ultimi momenti prima della lettura della sentenza di condanna, Saetta aveva perduto la pazienza e aveva redarguito gli altri componenti del collegio dicendo loro: “se continuiamo così, da qui non si esce più”.

Il 23 giugno del 1988 la Corte presieduta da Saetta condannò nuovamente gli imputati all’ergastolo.

imageAll’interno di “cosa nostra”, allora, cominciò a circolare voce che Antonino Saetta avrebbe presieduto l’appello del “maxiprocesso” e, alla luce del comportamento che aveva tenuto in occasione del processo per l’omicidio Basile, questa sua designazione veniva guardata con notevole preoccupazione.

A quel punto per “cosa nostra” l’eliminazione di Saetta divenne improcrastinabile. Tanto da coinvolgere anche il figlio Stefano, che aveva la sola colpa di essere tanto amato dal padre da non separarsene mai.

Non si ci poteva parlare col giudice Saetta, aveva la testa dura, chissà cosa si credeva di fare quando voleva dare ascolto a quelli che volevano convincerlo ad essere “buono” con certi imputati.

Ma in realtà è stato un esempio di come un servitore dello Stato sa custodire gelosamente la propria indipendenza e la propria autonomia e solo per questo – non per fare l’eroe – ha saputo sfidare la tracotanza della mafia.

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