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Amato: “Tutti gli errori del M5s sul caso Minzolini”

Redazione

Amato: “Tutti gli errori del M5s sul caso Minzolini”

Ven, 24/03/2017 - 09:52

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CALTANISSETTA – RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO. È ormai un dato di fatto che il movimento di Beppe Grillo ha scelto, da tempo ma ancor più dopo l’elezione del Presidente americano, la via della delegittimazione dei mass media tradizionali e delle semplificazioni-disinformazioni-bufale, in un climax di gravità. L’ultimo esempio lo fornisce il caso Minzolini, l’ex direttore del TG1 – oggi in Forza Italia – sulla cui decadenza per ineleggibilità il Senato ha votato a sfavore, seguendo le prescrizioni della legge Severino. La votazione si è svolta a voto palese, e 19 senatori del Partito Democratico hanno votato contro la decadenza, evidentemente perché hanno trovato la condanna influenzata dal fumus persecutionis. Purtroppo quasi nessuno di loro ha giustificato la propria scelta sui social network e non siamo perciò in grado di conoscere le motivazioni, ne risponderanno loro stessi agli elettori.

Riepiloghiamo la storia giudiziaria: Augusto Minzolini è stato giudicato colpevole dalla Cassazione per peculato continuato e condannato a due anni e mezzo di reclusione e alla interdizione dai pubblici uffici; i giudici hanno verificato infatti un uso improprio della carta di credito della Rai con la quale l’ex direttore ha totalizzato spese per 65mila euro. Luigi Di Maio, leader in pectore del Movimento, ha parlato di atto eversivo, aggiungendo che i parlamentari non si dovrebbero più lamentare in caso di “atti violenti, perché i primi violenti che vanno contro la legge sono loro”, scatenando naturali polemiche nei giorni successivi. Il Vicepresidente della Camera, non soddisfatto, è tornato ieri sull’argomento durante l’intervista a Di Martedì, su La7. Di fronte al tentativo di Floris di ristabilire la realtà giuridica, Di Maio ha sbottato: “Non dirò mai che sul caso Minzolini è stata rispettata la legge perché il Parlamento doveva prendere atto della decisione di un altro potere dello Stato”. Il pubblico in studio è sembrato credergli visti gli applausi calorosi che ormai a La7 non stupiscono più, ma è stato ingannato.

L’articolo tre del decreto legislativo n. 235/2012, conosciuto ai più come legge Severino, prescrive che “qualora una causa di incandidabilità […] sopravvenga o comunque sia accertata nel corso del mandato elettivo, la Camera di appartenenza delibera ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione.” Verificando il testo costituzionale si scopre che l’articolo citato prevede un “giudizio” da parte dei membri della camera interessata, e non una “presa d’atto” come pare sostenere Di Maio. Il Parlamento ha cioè il dovere di votare, ma non di approvare la decadenza del proprio membro. Ed affermare, come fa il deputato del M5s, che “nella legge Severino c’è scritto che la Camera deve votare perché non poteva scrivere altrimenti” è una banale tautologia che non dimostra in alcun modo l’automatismo della decadenza in caso di condanna passata in giudicato. In diritto le parole contano, per di più se contenute nella Costituzione; Luigi Di Maio,  studente (fuoricorso) di giurisprudenza dovrebbe esserne a conoscenza. D’altra parte la sua tesi è smentita dal fatto che nella prima versione del decreto legislativo della Severino, preparata dal governo Monti nel 2012, il testo si presentava in modo differente: allora l’articolo tre – che sarebbe stato poi modificato – prevedeva la “decadenza di diritto”, senza rimandare all’articolo 66 della Costituzione. Se insomma il legislatore avesse voluto introdurre la decadenza automatica di fronte a una condanna in terzo grado lo avrebbe potuto fare. Gli stessi padri costituenti, evocati fino alla noia dai 5 stelle durante la campagna referendaria per il No, intendevano l’articolo 66 come un giudizio da parte del Parlamento, e non una semplice e più debole verifica o presa d’atto. Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea Costituente, nel 1946 affermò “la Camera ha una sovranità che non tollera neppure nelle cose di minore importanza una qualsiasi limitazione. Potrà trattarsi di una posizione di carattere simbolico; tuttavia essa significa che ogni intromissione, sia pure della magistratura, è da evitarsi”. Ma i pentastellati hanno commesso anche un altro errore sulla vicenda: hanno scritto infatti di “quarto grado di giudizio”, sul blog di Beppe Grillo. Il voto delle camere pone tuttavia l’attenzione sull’ineleggibilità e l’incompatibilità dei propri componenti, e non sulla sentenza passata in giudicato che rimarrà operativa e dovrà essere scontata anche da Minzolini.

Era perciò ampiamente prevedibile che tale voto scatenasse le proteste di buona parte dell’opinione pubblica contro quella che è stata ritenuta l’ennesima manifestazione di protervia della casta politica. Meno prevedibile, sinceramente, che taluni senatori giustificassero il loro voto, favorevole o contrario, ricorrendo ad argomenti costituzionalmente opinabili. È il caso, quindi, di fare un po’ di chiarezza, anche per il futuro. Innanzi tutto, in caso di sopraggiunta causa d’incandidabilità di un parlamentare, la Camera d’appartenenza non è chiamata a “prendere atto” o a “ratificare” la sentenza di condanna, dichiarandone l’automatica decadenza dal mandato, ma, come recita l’art. 3.1 del citato decreto Severino, deve deliberare “ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione”. Articolo secondo cui “ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità” (c.d. autodichia; corsivo mio). Pertanto, al contrario di altri ordinamenti costituzionali, nel nostro sono esclusivamente le Camere che devono non “accertare” o “dichiarare” ma “giudicare” dei titoli di ammissione e, quindi, della permanenza in carica dei propri componenti, anche a seguito di “cause sopraggiunte di ineleggibilità” (e la incandidabilità è una particolare forma d’ineleggibilità: v. Corte cost. 132/2001, 2° cons. dir.).

Ai sensi dell’art. 66 Cost., dunque, sono solo le camere a poter decidere sovranamente della propria composizione: né la magistratura, né lo stesso eletto (le cui dimissioni, per questo motivo, sono soggette ad approvazione). Del resto, fu proprio per evitare problemi di costituzionalità che l’attuale formulazione del sopra citato art. 3.1 fu preferita a quella iniziale che in tali casi invece prevedeva “la decadenza di diritto dalla carica, (…) dichiarata dalla Camera di appartenenza”. È errato, quindi, a mio parere, ritenere che, in tali casi, il voto per la decadenza sia un atto dovuto e non discrezionale. Di esso i parlamentari, in piena libertà di mandato, si assumono la responsabilità politica dinanzi ai loro elettori e, più in generale, all’opinione pubblica.

Ma parimenti errato è, a mio parere, giustificare il voto contrario alla decadenza per il fumus persecutionis di cui il sen. Minzolini sarebbe stato vittima perché, dopo essere stato non condannato in sede civile ed assolto in primo grado in sede penale, egli è stato, invece, dichiarato colpevole  dalla Corte di appello senza nuova audizione dei testimoni e ad una pena appositamente aumentata a due anni e mezzo di reclusione così da far scattare l’applicazione del decreto Severino.

Innanzi tutto, chi ha avuto un giudizio favorevole in sede civile non per questo va scagionato in sede penale, trattandosi ovviamente di processi basati su presupposti diversi. In secondo luogo, è ben strano che il sen. Minzolini non abbia mai eccepito nel processo, come pur avrebbe potuto tramite istanza di ricusazione, la mancata imparzialità e terzietà del collegio giudicante (per la presenza tra i tre giudici di un ex parlamentare e sottosegretario nel governo Prodi, di opposto orientamento politico). Ma soprattutto è la natura definitiva della sentenza penale di condanna, dopo due giudizi di merito ed uno di legittimità, che esclude in radice l’ipotetico intento persecutorio. È questo, infatti, il motivo per cui l’art. 68.2 Cost. esclude l’autorizzazione della camera di appartenenza quando si debba privare un parlamentare della libertà personale “in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna”.

Certo si possono separare i due piani, sostenendo che i magistrati possano, in diabolico concerto, perseguitare (e non perseguire) un parlamentare fino al punto di condannarlo in via definitiva e mandarlo in carcere (non nel caso però del sen. Minzolini, condannato con la condizionale), senza però poterlo privare del suo mandato. Epperò, spero si vorrà convenire sulla gravità della situazione, un po’ paradossale, in cui si verrebbe a trovare il parlamentare perseguitato che, pur rimanendo tale in carcere, non potrebbe comunque esercitare il suo mandato, almeno per quanto riguarda quelle funzioni che richiedono la sua presenza fisica a Palazzo Madama o a Montecitorio.

Il fatto è, invece, che la definitività della sentenza penale di condanna esclude in re ipsa ogni ipotesi persecutoria per cui, così come consente che il parlamentare venga privato della sua libertà personale senza necessità dell’autorizzazione a procedere della camera di appartenenza, allo stesso modo dovrebbe consentirne, almeno sotto questo profilo, la decadenza dal mandato. Diversamente, facendo prevalere l’art. 66 sull’art. 68.2 Cost., si finisce di fatto per resuscitare la vecchia autorizzazione a procedere antecedente alla riforma del 1993, cioè richiesta anche quando si trattava di dare esecuzione a sentenze penali definitive di condanna.

Parimenti opinabile pare la motivazione di chi ha votato contro la decadenza del sen. Minzolini contestando la violazione del principio d’irretroattività delle norme penali, giacché altrimenti si sarebbe applicato un istituto di natura sanzionatoria introdotto dal 2013 a fatti commessi antecedentemente. La Corte costituzionale, infatti, ha definitivamente chiarito che le misure dell’incandidabilità, della decadenza e della sospensione degli amministratori pubblici “non costituiscono sanzioni o effetti penali della condanna, ma conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerato o per il loro mantenimento”(sentenza n. 236/2015, 4.1 cons. dir.). In virtù di tale giurisprudenza, dunque, la decadenza dal mandato parlamentare non costituisce una sanzione o un effetto penale della condanna, ma la conseguenza del venir meno d’un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche elettive o per il loro mantenimento, nell’ambito di quanto dettato dall’articolo 51.1 Cost. (che attribuisce al legislatore il potere di stabilire i requisiti di eleggibilità) e non in quello dell’articolo 25.2 (che sancisce il principio di irretroattività della legge penale). Un’ultima considerazione. La Giunta delle elezioni del Senato, nel suo parere reso all’Aula (favorevole alla decadenza), ha ribadito la sua natura di organo politico, e non giurisdizionale, inidoneo quindi a sollevare in materia questioni di legittimità costituzionale o rinvii pregiudiziali interpretativi alle Corte europee di Strasburgo e Lussemburgo (causa questa non ultima dell’ammissibilità da parte della Corte costituzionale delle azioni di accertamento in materia di legge elettorale). Preso atto di tale orientamento, deve essere dunque il legislatore – e non altri – ad intervenire sulla disciplina della incandidabilità per sciogliere i numerosi dubbi interpretativi insorti. Non certo per abbassare il livello di guardia verso simili comportamenti delittuosi che, quando commessi da parlamentari, suscitano giusto sconcerto nell’opinione pubblica. Luigi Di Maio si confonde nell’interpretazione, in realtà piuttosto chiara, della legge Severino ed arriva addirittura ad affermare – sbagliando, concedendogli il beneficio del dubbio – che il Parlamento è fuori legge. Non sarà che l’esame mancante al giovane studente fuoricorso sia proprio quello di diritto costituzionale?

Calogero Jonathan Amato, Giurista

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