Oggi, 20 dicembre, ricorre l’anniversario della morte di Giovanni Meli (Palermo, 1740 – 1815), uno tra i più celebri poeti siciliani dell’età moderna, autore di opere che hanno segnato la storia della lingua e della cultura isolana. La sua produzione, che spazia dalla poesia bucolica alla satira filosofica, rimane un pilastro della letteratura in lingua siciliana.
Giovanni Meli nacque a Palermo il 4 marzo 1740, figlio di Vincenza Torriquas e dell’orafo Antonio Meli. Studiò presso i Gesuiti, appassionandosi alla filosofia illuministica e ai classici italiani e latini. Nel 1764 conseguì il titolo di medico e per alcuni anni esercitò la professione di medico condotto a Cinisi e Borgetto, dove fu chiamato “abate Meli” – pur senza aver preso i voti – a causa dela sua maniera di vestire. Tornato a Palermo, ottenne la cattedra di Chimica all’Università.
Meli si impose come voce originale, capace di fondere la tradizione arcadica con la vitalità della lingua siciliana e divenne il poeta arcadico ‘dialettale’ più importante d’Italia, la cui fama si diffuse anche in Europa. I suoi versi vennero tradotti in italiano, francese, inglese, tedesco, greco, latino e tra i suoi traduttori si annovera pure Ugo Foscolo.
“La Fata Galanti” (1759) è la sua prima opera importante, scritta e pubblicata quando ancora non aveva compiuto 20 anni; un poemetto allegorico che unisce fiaba e filosofia, con echi ariosteschi e virgiliani. Altre sue opere: “L’origini di lu munnu”, poemetto ‘bernisco’ sulle teorie cosmogoniche, che riflette il dibattito illuminista; “La Buccolica”, raccolta di componimenti pastorali che celebra la natura e la vita semplice; ; “Ditirammu”, componimento di tono lirico e celebrativo; “Don Chisciotti e Sanciu Panza”, riscrittura siciliana in ottava rima del capolavoro di Cervantes, in cui Meli trasforma i protagonisti in figure popolari della sua terra; “Poesie siciliane” (1787), raccolta in cinque volumi che rappresenta la summa della sua produzione, ripubblicata ampliata nel 1814 in sette volumi in cui compaiono anche le “Favuli morali”, raccolta di favole in versi, con intenti morali e sociali.
Da “Favuli morali”:
Lu Rizzu, la Tartuca e lu Cani.
A la Tartuca sutta un scornabeccu
Dissi lu Rizzu: Oh pazza, fa sciloccu,
E tu vai cu visèra e cu cileccu,
E di cchiù porti supra lu marroccu!
Rispunn’idda: Tu all’autri metti peccu;
E pirchì armatu di dardu e di stoccu
‘N tempu di paci vai, facci di sceccu,
Comu duvissi sustiniri un bloccu?
Mentri autri inciurj su’ pronti a lu sbuccu
Rumpi sta quistioni un Cani-braccu,
Chi li ‘mmesti e li sbatti a trucc-e-ammuccu
Poi dici: Ognunu stia ‘ntra lu so scaccu;
Sapi cchiù in casa propria un pazzu o un cuccu,
ch’in casa d’autri un saviu ed un vigghiaccu.
Meli fu considerato il “poeta nazionale di Sicilia”, capace di dare dignità letteraria alla lingua dell’Isola. La sua opera riflette un equilibrio tra spirito illuminista e radicamento popolare, con attenzione ai temi della giustizia, della natura e della vita quotidiana. Ancora oggi, i suoi versi sono studiati come testimonianza della ricchezza espressiva del siciliano e della sua capacità di dialogare con la grande tradizione europea. A 210 anni dalla sua morte, Giovanni Meli – che è sepolto a Palermo nella chiesa di San Domenico, Pantheon dei siciliani illustri – rimane una figura centrale della cultura siciliana. La sua poesia, sospesa tra ironia, filosofia e lirismo, continua a parlare con forza al presente, ricordandoci l’importanza di custodire e valorizzare la lingua e la tradizione della Sicilia.

