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Togliatti statista e rivoluzionario

Michele Spena

Togliatti statista e rivoluzionario

Gio, 21/08/2014 - 18:53

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imageCALTANISSETTA –  “E’ arrivato al confine estremo consentitogli dal suo mondo”. Con questo distico in prosa  Alessandro Natta, l’ultimo segretario del Partito Comunista Italiano, aveva ricordato Togliatti a vent’anni dalla sua scomparsa.

C’è tutto il senso del limite che i contesti storici impongono alle speranze e alle volontà degli uomini che vivono la politica come strumento per cambiare il mondo, in queste parole, la stessa lucidità consapevole ma non disincantata che aveva guidato Togliatti nella sua vicenda di rivoluzionario e di statista, e che oggi, a 50 anni dalla sua scomparsa, sarebbe utile rileggere.

Togliatti con i limiti della “necessità” storica aveva fatto i conti diverse volte: con il fascismo e la dittatura, con i lunghi anni a Mosca, dirigente dell’Internazionale Comunista agli ordini di Stalin, e dopo la fine della seconda guerra mondiale, sapendo che a Yalta, prima ancora che la guerra fosse finita, le potenze vincitrici avevano già deciso definitivamente come sarebbe stato diviso il mondo, fino alla fine  del secolo.

E l’Italia, al centro dell’Europa divisa,  era stato deciso che rimanesse nella sfera di influenza americana. Senza possibilità di soluzioni alternative.

E allora, a che doveva servire la politica, se il potere, quello per cui ogni rivoluzionario sogna e combatte, sarebbe stato precluso nella sua conquista definitiva, nella sua “possibilità” di trasformare fino in fondo la realtà in cui si vive, e i suoi contesti?

imageC’è una forza straordinaria, proprio per questo, nella vicenda politica di Togliatti: la forza laica di chi sa che ci sono dei limiti che segnano il campo dell’azione umana, dei singoli e delle masse, dei leader e dei popoli, ma che questo non determina un destino irredimibile, e per la liberazione dalle ingiustizie la storia offre all’umanità  lo spazio, parziale ma aperto, dell’azione politica possibile. In questo mondo.

Questo spiega le scelte di “compatibilità” di Togliatti, che una critica superficiale potrebbe liquidare come machiavellismo o peggio opportunismo: la fuga dalla dittatura fascista, il ruolo a Mosca, nel Comintern, abbastanza vicino a Stalin da conoscerne gli orrori ben prima del resto del mondo, ma anche da respingerne la proposta di restare in URSS, nel 1951, per rimanere in Italia in un contesto opposto, democratico e capitalista, a guidare il suo partito di operai, di contadini e di intellettuali, a rappresentare un’alternativa culturale, morale, politica nella società e nelle istituzioni scelte come il campo della trasformazione possibile.

imageTogliatti decisivo nella scrittura della Costituzione, interlocutore dei leader cattolici che avrebbero guidato il Paese, fautore del voto positivo all’art. 7, capolavoro di equilibrio politico sui rapporti tra Stato e Chiesa “ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani”. Togliatti ministro della Giustizia nel primo governo De Gasperi autore dell’amnistia agli ex  fascisti che chiudeva la stagione sanguinosa delle vendette del dopo-guerra-civile. Togliatti, colpito dall’attentato di un fanatico nel 1948, capace dibloccare l’insurrezione che in tutto il centro-nord Italia aveva già trasformato lo sciopero generale in una situazione da nuova guerra civile. Togliatti che apre ai cattolici della chiesa di Papa Giovanni con il discorso di Bergamo sulla coesistenza pacifica e la pace nel mondo,  superando finalmente la politica dei blocchi contrapposti.Togliatti che scrive fino all’ultimo momento della sua vita il “Memoriale di Yalta” sulla via italiana al socialismo, autonoma e democratica.

Non aveva l’immagine del leader carismatico, Togliatti, con la sua voce sottile e il suo fisico minuto, ma veniva riconosciuto e amato come tale da milioni di persone in Italia, dove era riuscito a costruire il più grande Partito Comunista dell’Occidente, quello per cui votava almeno un italiano su quattro e che avevaconquistato i nomi più prestigiosi della cultura italiana, da Visconti a Moravia, da Rossellini a De Sica, da Guttuso a Concetto Marchesi, da Luigi Russo a Quasimodo, da Volponi a Calvino.

Anche con l’asprezza autoritaria di cui soffrirono Elio Vittorini e Pier Paolo Pasolini, un limite anche questo, forse simile a quello descritto dai versi duri di Bertold Brecht: “noi che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza noi non si potè essere gentili”.

Senza la forzatura dell’inflessibilità non si sarebbe liberato dell’ala più intransigente e filosovietica dei “duri e puri”insurrezionalisti come Pietro Secchia, e  così l’autoritarismo del metodo del “centralismo democratico” per governare il Partito fu piegato a portare  milioni di militanti organizzati a diventare da emarginati a costruttori convinti della democrazia nel nostro Paese, “intellettuale collettivo” come Gramsci aveva insegnato, negli anni difficili del fascismo.

"Il funerale di Togliatti" dipinto da Renato Guttuso nel 1972. Opera manifesto del pittore siciliano (1911 - 1987), il dipinto ritrae il corteo che nel 1964 partecipò a Roma ai funerali di Palmiro Togliatti, segretario e leader del Partito Comunista Italiano. Al rosso acceso delle bandiere si contrappongono i grigi e i bianchi dei volti dei partecipanti, anacronisticamente mescolati nello stesso evento, quasi a significare che gli ideali sopravvivono agli uomini.

“Il funerale di Togliatti” dipinto da Renato Guttuso nel 1972.
Opera manifesto del pittore siciliano, il dipinto ritrae il corteo che nel 1964 partecipò a Roma ai funerali di Palmiro Togliatti, segretario e leader del Partito Comunista Italiano. Al rosso acceso delle bandiere si contrappongono i grigi e i bianchi dei volti dei partecipanti, anacronisticamente mescolati nello stesso evento, quasi a significare che gli ideali sopravvivono agli uomini.

Quel popolo protagonista, conquistato alla democrazia,  lo salutò al suo funerale con una partecipazione corale di dimensioni epiche, che è entrata nella memoria  collettiva con le immagini che molti film, da quel 1964, hanno inserito nella loro narrazione come le più simboliche dell’identità politica del popolo italiano in quegli anni della sua storia. Quel popolo, che al suo funerale lo aveva salutato “col pugno chiuso e il segno della croce”.

Questo segno, dell’unità da costruire nel popolo, al di là del conflitto sociale e dello scontro politico, ognuno per la propria parte, penso sia l’eredità più importante di Togliatti statista della democrazia “incontentabile” come la chiamava lui, quella democrazia “progressiva” che voleva andare oltre i formalismi della democrazia delegata, ma che pure tutti i meccanismi della democrazia rappresentativa conosceva e sapeva utilizzare, nel Parlamento e nelle istituzioni locali, con intelligenza e senza settarismi, senza il velleitarismo di chi vorrebbe far capire che la rivoluzione si può fare, pur sapendo che non ce ne sono le condizioni.

Nutrire e organizzare la speranza senza drogarla di facili illusioni. La Politica può essere questo: ideali alti e pensieri lunghi, la prospettiva di una società da lasciare ai nostri figli migliore di come l’abbiamo trovata, trasformata in profondità, in cui nessuno resti indietro o si possa sentire emarginato, in cui l’azione umana e anche la resistenza estrema trovino senso in  un agire e in un orizzonte collettivo, di esperienze e di identità condivise.

Senza ignorare quali sono i contesti che determinano le condizioni generali, la “necessità” della storia, le cose che non si possono cambiare, come diceva San Francesco, avendo il discernimento di saperle distinguere da quelle che si possono cambiare, avendone la forza.

In fondo, è la stessa idea di politica di Aldo Moro, che la testimoniava in quegli stessi anni da un versante politico e culturale opposto, ma non incomunicabile, quando, pochi mesi prima di morire, aveva detto che “si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato, con tutte le sue difficoltà”.

Fiorella Falci

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