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L’APPROFONDIMENTO. Capaci: stragi irrisolte, 28 anni dopo ancora misteri

Giuseppe Marinaro -AGI

L’APPROFONDIMENTO. Capaci: stragi irrisolte, 28 anni dopo ancora misteri

Ven, 22/05/2020 - 17:38

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Un’onda lunghissima e dolorosa di silenzi e misteri che ancora non si e’ arrestata. Un tempo tragico, oscuro e colmo di tensione. Cinquantasette giorni separano la strage di Capaci da quella di via D’Amelio. Ventotto anni i due eccidi da una verita’ piena la cui ricerca e’ ancora oggetto di processi e nuove indagini. Un attentato contro Giovanni Falcone era temuto, quello contro Borsellino apparve dolorosamente annunciato: entrambi si consumarono in un contesto di incapacita’ e complicita’ che va ben oltre il livello della mafia, in un quadro, certificato da una sentenza, di “colossale depistaggio”.

Il verdetto del processo Stato-mafia, del 20 aprile 2018, con l’Appello iniziato poco piu’ di un anno fa e ripreso lunedi’ scorso dopo la pausa imposta dal Covid-19, ha aperto scenari inediti. La trattativa, stabilisce quella decisione, c’e’ stata: pezzi di istituzioni e i vertici di Cosa nostra avrebbero negoziato mutue concessioni, condizionato scelte e uomini, e accelerato l’epilogo tragico del 19 luglio.

“AVEVANO GIA’ INIZIATO A FARLI MORIRE” Il 23 maggio del 1992, Giovanni Falcone, direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia e candidato alla carica di procuratore nazionale antimafia, era appena atterrato all’aeroporto di Punta Raisi con la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato.

Alle 17.58, sull’autostrada Trapani-Palermo, nei pressi di Capaci, la tremenda esplosione che li uccise con gli uomini della scorta. Circa 500 chili di tritolo piazzati dentro un canale di scolo esplosero mentre transitavano le Croma. La prima auto blindata – con a bordo i poliziotti Antonino Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo – venne scaraventata oltre la carreggiata opposta di marcia, su un pianoro coperto di ulivi. La seconda Croma, guidata dallo stesso Falcone, si schianto’ contro il muro di detriti della profonda voragine aperta dallo scoppio. L’esplosione divoro’ un centinaio di metri di autostrada.

Poco piu’ di un mese dopo, il 25 giugno, Paolo Borsellino denuncio’ la costante opposizione al lavoro e al metodo di Falcone di parti consistenti delle istituzioni: “Secondo Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone comincio’ a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione. Oggi che tutti ci rendiamo conto di qual e’ stata la statura di quest’uomo, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha piu’ colpe di ogni altro, comincio’ a farlo morire il primo gennaio del 1988, quando il Csm con motivazioni risibili gli preferi’ il consigliere Meli”. A un certo punto, racconto’ Borsellino, “fummo noi stessi a convincere Falcone, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Cerco’ di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato le esperienze del pool antimafia. Era la superprocura”.

La mafia “ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio nel momento in cui Giovanni Falcone era a un passo dal diventare direttore nazionale antimafia”. Paolo Borsellino, 51 anni, da 28 in magistratura, procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano dopo aver diretto la procura di Marsala, pranzo’ a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia. Poi si reco’ con la sua scorta in via D’Amelio, dove vivevano la madre e la sorella. Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre con circa cento chili di tritolo a bordo, esplose al passaggio del giudice, uccidendo anche i cinque agenti. Erano le 16.58. L’esplosione, nel cuore di Palermo, venne avvertita in gran parte della citta’.

L’autobomba uccise Emanuela Loi, 24 anni, la prima donna poliziotto in una squadra di agenti addetta alle scorte; Agostino Catalano, 42 anni; Vincenzo Li Muli, 22 anni; Walter Eddie Cosina, 31 anni, e Claudio Traina, 27 anni. Unico superstite l’agente Antonino Vullo.

TRATTATIVE. LA “PROVA REGINA” Dopo 28 anni restano tanti misteri. La sentenza di primo grado del processo Stato-mafia, che ha condannato boss, ex alti ufficiali del Ros come Mario Mori e politici come Marcello Dell’Utri, a giudizio di molti ha dato linfa e impulso a nuove inchieste a Caltanissetta sulle stragi. Tre poliziotti sono a processo con l’accusa di essere i tasselli di una complessa strategia di depistaggio delle indagini sull’eccidio di via D’Amelio. 

Il 20 febbraio e’ stata sentita come teste Ilda Boccassini, ex pm a Caltanissetta da ottobre ’92 a dicembre ’94, che ha parlato di “prova regina inconfutabile circa il fatto che Scarantino stava dicendo delle sciocchezze: si era ancora in tempo per tornare indietro e fermarsi”. Non lo si fece. Lo scorso novembre si e’ concluso in appello il quarto processo per la strage di via D’Amelio. La Corte ha confermato la sentenza di primo grado, condannando all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage, e a 10 anni i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Cosi’ come aveva fatto la Corte d’assise anche in appello i giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato a Vincenzo Scarantino. Prendera’ il via nei prossimi giorni, il 26 maggio, in Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, la requisitoria nei confronti di cinque imputati accusati di aver ricoperto un ruolo nella strage di Capaci: i boss Salvo Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro, Lorenzo Tinnirello e Vittorio Tutino.

I primi quattro, in primo grado, sono stati condannati all’ergastolo; assolto Tutino per non aver commesso il fatto. Per l’accusa, il boss palermitano di Cosa nostra Salvo Madonia sarebbe stato uno dei mandanti della strage, mentre gli altri sarebbero stati coinvolti nella fase esecutiva dell’attentato. Nel corso del processo, il pentito Francesco Geraci ha detto che “oltre a dovere uccidere il giudice Giovanni Falcone, si dovevano eliminare Maurizio Costanzo, Michele Santoro e Pippo Baudo per allontanare l’attenzione dalla Sicilia e creare un certo allarme nel centro Italia”. Ognuno “aveva un compito ben preciso e Messina Denaro diede 5 milioni di lire ciascuno per quella trasferta. A un certo punto arrivo’ l’ordine di tornare in Sicilia”.

L’ULTIMO PADRINO Gia’, Messina Denaro. Dal marzo 2017 da latitante e’ a giudizio a Caltanissetta per le stragi del ’92. E’ accusato di esserne uno dei mandanti. Durante l’udienza preliminare, il pubblico ministero aveva sostenuto che Messina Denaro prese parte a una riunione della commissione di Cosa nostra alla fine del ’91 nella sua Castelvetrano, in cui Riina diede il via alla strategia stragista. Il capomafia, inoltre, avrebbe inviato a Roma, su ordine di Riina, diversi killer per uccidere Falcone nei primi mesi del ’92, ma la missione falli’. All’apertura del procedimento, il pm aveva chiesto di interrogare l’imputato Messina Denaro… aggiungendo che era “un auspicio”. L’accidentato cammino della verita’ e della giustizia non e’ finito.