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Settant’anni fa l’occupazione delle terre. L’ultima epopea del Popolo Siciliano

Michele Spena

Settant’anni fa l’occupazione delle terre. L’ultima epopea del Popolo Siciliano

Mer, 05/11/2014 - 19:48

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Occupazione-terre-incolte-SOttobre 1944: nell’Italia spaccata in due dalla guerra, il governo di “grande coalizione” (DC, PCI, PSI, Pd’A, PLI e PDL) dopo vent’anni di dittatura fascista  sta sperimentando faticosamente  una transizione difficile, con il territorio ancora occupato dalle truppe naziste al nord e dagli anglo-americani al sud. La Costituzione è ancora lontana, e l’Assemblea Costituente sarebbe stata eletta più di un anno e mezzo dopo.

Ma il Paese è allo stremo: dopo lo sbandamento dell’8 settembre e la vergognosa fuga del Re, ogni tentativo di recuperare la dignità militare di paese alleato (come alla Francia di De Gaulle era stato riconosciuto nonostante l’occupazione nazista) era stato ignorato. In periferia, e in Sicilia in particolare, il movimento del “non si parte” vanificava  il tentativo di un nuovo arruolamento e si saldava pericolosamente con le agitazioni separatiste (sostenute dalla mafia e dalla criminalità) fomentate dai grandi proprietari terrieri che puntavano  a staccare la Sicilia dall’Italia e ad infeudarla agli Stati Uniti d’America.

Storia antica quella del separatismo delle classi dirigenti siciliane, che, in cambio della difesa dei loro privilegi, da sempre avevano preferito la subalternità ad uno straniero piuttosto che la responsabilità faticosa dell’autogoverno.

In questo contesto tumultuoso riemerge dalla storia antica della Sicilia la questione delle questioni, in campo in tutti i momenti cruciali: la questione della terra, migliaia di ettari di terre incolte nell’Isola, la promessa di distribuirla ai contadini poveri per dare loro lavoro e dignità, dopo secoli di sfruttamento.

Era stata questa la molla della vittoria di Garibaldi nel 1860: solo in Sicilia il Risorgimento era stato un movimento popolare di massa, perché ai contadini erano  state promesse le terre demaniali, con tanto di decreto in nome di Vittorio Emanuele. Ma la strage di Bronte aveva smascherato l’illusione e consolidato il potere dei gattopardi.

Quarant’anni dopo ci avevano riprovato i contadini siciliani, con il grande movimento dei Fasci: stroncato nel sangue da un Capo del Governo siciliano, Francesco Crispi. Sembrava essere scesa una pietra tombale sulle speranze di giustizia dei siciliani e sulla credibilità delle classi dirigenti, in quella che Pirandello, nel suo romanzo “I vecchi e i giovani”, avrebbe definito “la bancarotta del patriottismo”.

Dopo la Grande Guerra, nel 1919, ancora promesse di terra ai reduci ex combattenti, cancellate poi in tutta fretta dal Fascismo.

Ottobre 1944: un ministro comunista del Governo di unità nazionale, l’avvocato calabrese Fausto Gullo, compagno di lotta di Gramsci e Terracini, scrive e riesce a fare approvare un Decreto, il n.279 del 19 ottobre 1944; il primo intervento legislativo che affrontava, da parte del nuovo Governo del Paese, la questione della terra e della dignità del lavoro contadino. Sarebbe passato alla storia come “il Ministro dei contadini”.

«Le associazioni di contadini regolarmente costituite in cooperative o in altri enti, possono ottenere la concessione di terreni di proprietà privati o di enti pubblici che risultino non coltivati o insufficientemente coltivati in relazione alle loro qualità, alle condizioni agricole del luogo e alle esigenze culturali dell’azienda in relazione con le necessità della produzione agricola nazionale»

Così l’art. 1 del Decreto.  Finalmente lo Stato italiano stava dalla parte degli ultimi.

Per il popolo siciliano era la realizzazione di un sogno, il riscatto da secoli di sottomissione ai latifondisti e ai loro gabelloti. Le terre incolte venivano occupate dalle popolazioni di interi paesi, a cavallo, con i carretti,  a piedi, con donne e bambini, e la banda musicale a solennizzare la presa di possesso di una nuova libertà.

Intanto, di fronte al ruggito di quel movimento,  i latifondisti avevano stretto un patto di potere con la criminalità mafiosa, affidando i loro feudi in gestione ai capimafia, per dimostrare che non erano incolti e per far presidiare la loro proprietà da quel potere violento che da sempre, in Sicilia, aveva dettato legge nelle campagne.

Calogero Vizzini, a Villalba nel feudo Micciché della principessa di Trabia, a Mussomeli  Giuseppe Genco Russo nel feudo dei principi Lanza, Vanni Sacco a Camporeale,  nel feudo Parrino; e anche Luciano Liggio (la nuova generazione della mafia) diventa gabelloto di un feudo a Corleone.

Sulla terra dei feudi occupati e poi regolarmente assegnati, i cortei dei contadini trovano spesso le doppiette dei mafiosi e la minaccia antica della prepotenza di chi aveva sempre comandato.

E infatti “Ca sempri tu vo’ cumannà?” diventa uno degli slogan  di successo cantati in coro nelle manifestazioni. Finalmente una intera generazione di popolo comincia a prendere in mano la propria vita, superando la paura, l’omertà, il ricatto. E una generazione di intellettuali, studenti, ma anche artisti, scrittori, si schiera, apertamente, a fianco di chi lotta per la propria dignità.

Nonostante il piombo della mafia: 52 dirigenti sindacali uccisi in Sicilia dal 1944 al 1960.

Soltanto in provincia di Caltanissetta 7.570 ettari vengono assegnati a 26 cooperative, in dieci Comuni. E così in tutta la Sicilia. L’operazione di redistribuzione della proprietà della terra assume dimensioni epocali. Ma non è ancora una riforma agraria: le cooperative assegnatarie dei terreni non hanno capitali, credito presso le banche, acqua, strade e luce elettrica nelle campagne, formazione professionale e imprenditoriale adeguata.

Quando tutto questo arriverà, dopo la riforma agraria del 1950 (ma di fatto molti anni dopo), sarebbe stato troppo tardi: quella generazione, impoverita e disillusa, avrebbe preso la strada dell’emigrazione per il nord Italia o per il Belgio, la Francia, la Germania.

Con il loro lavoro avrebbero costruito l’Europa unita. Molto prima dell’euro.

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