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Trent’anni fa Pippo Fava, esempio di giornalismo non “addomesticato” dal potere

Michele Spena

Trent’anni fa Pippo Fava, esempio di giornalismo non “addomesticato” dal potere

Dom, 05/01/2014 - 19:50

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Pippo_Fava_1CALTANISSETTA – Il suo era uno di quei sorrisi spietati, capaci di smascherare le ipocrisie con cui tanti giornalisti “domestici” costruivano la comunicazione sulla Sicilia del secondo ‘900. Su un volto da guerriero saraceno, uno sguardo affilato e lucido sulla realtà di quella società complessa e povera, sempre più simile a quel “contesto” che Sciascia aveva descritto nel suo romanzo del 1971, in cui era sempre il potere ad assegnare le parti, sia per chi comandava che per chi si opponeva.

Ma Pippo Fava di quel contesto non voleva farne parte: controcorrente, non allineato, rompiscatole, sapeva leggere la radiografia degli interessi e dei rapporti inconfessabili che governavano quella società, e ne parlava e ne scriveva, perché la sua professione era fare il giornalista. Era anche scrittore, autore di teatro, ma la trincea del suo impegno civile quotidiano era la stampa.

Quella stampa dominata in Sicilia dal  monopolio di un unico gruppo, quello di Mario Ciancio Sanfilippo, diventato la holding editoriale più importante di tutto il Meridione, padrone di quotidiani, televisioni, tipografie, distribuzione, agenzie di pubblicità e ponti radio, capace di determinare quello che si doveva e quello che non si doveva sapere delle cose siciliane, quello di cui l’informazione poteva parlare e quello che non doveva esistere per l’opinione pubblica. Il custode dell’indicibile.

Contro quel potere sulla verità Pippo Fava si era schierato, così come per primo aveva messo in evidenza il rapporto strutturale tra economia, politica, informazione e criminalità mafiosa, proprio a partire da quella Catania in cui la vulgata tradizionale diceva la mafia assente, svelando i legami, gli interessi dell’economia della spesa pubblica e dell’iniziativa privata, chiamando per nome e cognome gli intoccabili, i “quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa” come li aveva definiti in un editoriale del 1983, pochi mesi dopo l’avvio delle indagini del generale della Chiesa su quel legame inedito  tra imprenditoria catanese e cosche palermitane.

E aveva parlato delle banche, (“Follow the money” sosteneva Giovanni Falcone!), e delle casseforti  del credito, a partire dal Banco di Sicilia, che gli avrebbero sbarrato le porte per sostenere il suo giornale, anche solo con la pubblicità.

Contro la sua irriducibilità ai riti del perbenismo giornalistico i poteri forti lo avevano combattuto con l’alfabeto muto dell’isolamento, dell’emarginazione, cercando di soffocarlo con l’invisibilità, con i segnali inquietanti e minacciosi mandati alla sua redazione dei ragazzi de “I Siciliani”, la rivista mensile degli ultimi anni della sua vita, scommessa e investimento di pedagogia civile prima ancora che di giornalismo impegnato.

L’hanno ammazzato sparandogli alla nuca, cinque colpi senza che il killer potesse guardarlo in faccia, nella strada che oggi a Catania porta il suo nome, mentre aspettava la nipotina all’uscita del teatro. Non aveva scorte, non faceva parte del parterre dell’antimafia ufficiale, così come è rimasto per trent’anni abbastanza defilato nel Gotha dell’antimafia di tendenza, quella che si caratterizza per come declina mediaticamente le liturgie della legalità.

Dopo trent’anni se ne recupera la memoria, speriamo non soltanto nei pochi giorni in cui un docufilm televisivo ha riacceso i riflettori sulla sua esperienza straordinaria. Speriamo che questa memoria viva, in Sicilia e in Italia,  nel lavoro di tanti giornalisti non “addomesticati” dal potere. Indocili come lui.

 

 

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