Salute

La leggenda del Cristo Nero. Il dramma omni contemporaneo di Antonello Capodici

Michele Spena

La leggenda del Cristo Nero. Il dramma omni contemporaneo di Antonello Capodici

Ven, 10/03/2017 - 16:30

Condividi su:

10Il Signore della Città in legno d’ebano, essenziale e profondo come l’acqua dell’oceano, scuro come i nostri amici emigrati che di mare ne attraversano tanto, è il subliminale protagonista del dramma, andato in scena lo scorso novembre, per volere dell’autore, regista e interprete Antonello Capodici, proprio prima della fine dell’anno 2016.

Sono trascorsi, infatti, cinquecento anni dal tentativo di rivolta fallita contro il dominio dei Moncada. Volere celebrare la ricorrenza dello storico, e per certi aspetti unico tentativo di conquista di una propria autonomia di pensiero e azione, promosso dalla borghesia locale dell’epoca, è certamente un’impresa intrigante e dolcemente provocatoria, soprattutto se la proporzioniamo alla statica attualità.

La rivolta germogliò nella borghesia del tempo, il ceto dei “liberti”: contabili, medici, giureconsulti. Detti personaggi, pur godendo di una modica autonomia e discreto benessere, risultavano, all’epoca, assoggettati, come ogni altro uomo, donna, animale ed immobile, al diritto di proprietà dei Moncada, e coltivavano da tempo un astratto e moderato senso di ribellione, alimentato ed infiammato, dal notaio Naso, che progettava l’annessione della città al Regio Demanio, e la pubblicizzazione delle istituzioni locali.

Come molte imprese ardite, anche questa non ebbe gloria duratura. Una parte di quella borghesia che condivise la rivolta, scoprì presto di non sapere gestire la libertà conquistata, e provvide, con solerzia, a riconsegnare gli stessi uomini, donne, animali e cose, appena “liberati”, ai Moncada, nel frattempo trasferitisi a Palermo. I nobili strapparono alla delegazione trattante, anche l’impegno alla condanna per cospirazione di Naso, del figlio e della nuora, nonché lo scioglimento di qualsiasi rapporto fiduciario con i “pentiti”, da qual momento incondizionatamente assoggettati al loro volere, rinunciando così, alla pur modica autonomia prima posseduta, in cambio della sopravvivenza economica e sociale.

I riferimenti storici di Rosanna Zaffuto Rovello vengono narrati, dalla presenza, quasi fuori campo, di un chierico Gesuita interpretato dallo stesso Capodici.

Il sacerdote, appena nominato alla guida della locale istituzione religiosa, risultava del tutto estraneo e inconscio delle passate vicende della città. Nei suoi dialoghi si confronta con un uomo semplice, del piccolo popolo, probabilmente il suo attendente, che anela alla imminente liberazione promessa dalla rivolta in corso.

Casuista l’approccio del Gesuita, indaga analiticamente i fatti con lapidea lucidità, apparentemente inespressivo di posizioni nella prima parte del racconto, pregno di analitica ed al contempo misericordiosa disillusione nella seconda parte, tradisce l’essere stato cosciente, forse fin dall’inizio, dell’infausto esito dell’impresa.

Per ironia della sorte, propria per mano del potere monarchico al quale la rivolta di Naso tentò di consegnare la città, gli stessi Gesuiti vennero espulsi da Caltanissetta nel 1860. Nel 1866, esattamente trecentocinquanta anni dopo la rivolta di Naso, re Vittorio Emanuele II decretò la soppressione degli ordini religiosi, ponendo fine all’attività dell’unica supersite congregazione.

Durante il racconto, apparentemente strumentale a rappresentare le ristrettezza di libertà del regime dei Moncada, ma in realtà costituente una vicenda parallela della storia principale, viene portato in scena il processo sommario a carico di una serva di palazzo, condotta al cospetto del signore. Sembra, per un attimo, di ritrovare il medesimo sapore dei ritratti di Louise Hamilton Caico, che descrisse nel secolo scorso l’assurdità grottesca della umiliante condizione delle donne nella società del nisseno.

La serva è accusata di cospirazione per il solo fatto di aver adorato il Cristo Nero che si trova nelle campagne vicine.

E’ chiaro il riferimento al Signore della Città, ritrovato nel XIII secolo da due fogliamari, come vuole la leggenda, in una grotta appena fuori dalle mura.

Il nobile, benché aizzato dalle accuse della propria guardia, ascolta con attenzione il racconto della donna. Quel Cristo ha un significato emotivo e spirituale profondissimo, ben diverso dal potere rappresentato dai Moncada. Il signore decise prudentemente di non prendere, nell’immediato, alcun provvedimento contro la serva.

Nel frattempo, a rivolta fallita, il figlio del notaio Naso, con la propria consorte in attesa del primo figlio, fuggono da Caltanissetta e raggiungono il padre a Termini Imerese, dove è da tempo esiliato.

Inizia a quel punto uno struggente monologo del notaio, interpretato da Giorgio Villa. Caltanissetta resisterà, anche stavolta, al vilipendio dei suoi dominatori.

Ma Caltanissetta è una città di pietra. Sono infatti le mura delle sue case che resisteranno, e non gli uomini. Sono le case e le piazze a cui Naso si riferisce, che ama come fossero parte di un corpo, di un’anima, di una persona cara perduta nel’esilio.

Nel frattempo il nobile, ritornato al palazzo, schivo nei confronti di quanti lo avevano cacciato prima, e pregato di ritornare dopo, incontra di nuova la serva, portata anzitempo al suo cospetto. Prendendola sotto braccio, con voce commossa, le chiede di quel Cristo Nero che adora, se davvero avesse quel potere miracoloso di cui si parla.

A quel punto, la donna si illumina e si apre all’uomo, iniziando a raccontare di ciò che la gente prova per il Crocifisso. I due si allontanano insieme, concludendosi così il dramma, del quale emerge, solo al termine, l’incontro ed il contrasto tra le due storie parallele, di eversione la prima e di conversione la seconda.

Non sono, infatti, solo le mura, le piazze e le case, gli elementi unificanti della città, ma al contrario, forse, simboli effimeri di polimorfi interessi. Il Signore della Città, invece, unisce tutti. Il piccolo Cristo Nero, ritrovato in una grotta appena fuori dalle mura, quasi una metafora della natività che offre sollievo agli ultimi ed illumina i primi, offrendo anche ad essi una prospettiva di conversione.

Potrebbe essere questa la chiave di lettura della Leggenda del Cristo Nero, che l’autore ha voluto offrirci, alla vigilia delle festività natalizie, contestualizzata, forse volutamente, in un apparato scenico minimale, che permette di meglio apprezzarne la profondità del messaggio. Da sempre, il dramma si ripete ogni Venerdì Santo, con la processione di tutto il popolo devoto, senza distinzione di classe, al cospetto del piccolo, ma magniloquente simulacro.

banner italpress istituzionale banner italpress tv