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La redazione consiglia: “Vincenzo Livatino, il papà del magistrato che ispirò l’anatema di Agrigento”

Redazione

La redazione consiglia: “Vincenzo Livatino, il papà del magistrato che ispirò l’anatema di Agrigento”

Ven, 21/09/2012 - 17:30

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CALTANISSETTA – Nel giorno del ricordo di Rosario Livatino, l’editore ha deciso di pubblicare on line per la seconda volta un articolo del mensile cartaceo uscito nel maggio del 2011, ritenendo che “leggere e rileggere” non faccia mai male, anzi…
Alla sua età, incerto sulle gambe, camminava tenendosi al braccio di un parente o di un amico, ma non mancava mai ogni anno il 21 settembre sulla statale 640 tra Canicattì e Agrigento, quando veniva commemorato il figlio magistrato, ucciso lì dai sicari della stidda agrigentina nel 1990.

E nella solennità delle divise, delle corone di fiori e delle auto blu, la sua era la presenza più lieve e più allegra: salutava tutte le autorità e poi, con sguardo esperto, individuava nelle seconde e terze file i capannelli degli intervenuti più giovani e si avvicinava a loro, apostrofandoli quasi come a volerli prendere in giro: “Che siete voi, ora, i giudici ragazzini? E allora vi devo salutare”.

Vincenzo Livatino era il padre del “giudice ragazzino”; attratti dalla sua severità bonaria e dal suo affetto perentorio, quei giovani magistrati si sentivano un po’ anche figli suoi e per questo un po’ fratelli di Rosario Livatino. Fratelli minori, si intende, che guardano con sconfinata ammirazione al “ragazzino” più grande e cercano di imparare, sperando e temendo di potere essere com’era lui.

Insieme a sua moglie Rosalia Corbo, Vincenzo Livatino aveva cresciuto il loro unico figlio educandolo al rigore e all’onestà ed era stato ripagato vedendolo diventare un magistrato competente e coraggioso.

Ciò che dava orgoglio ai genitori, dava invece fastidio alle cosche mafiose.

Quando seppero che la macchina di Rosario era stata speronata dai killer, che il loro figlio aveva cercato di fuggire nella campagna oltre il guard rail, che era stato inseguito e che gli avevano sparato senza pietà, per Vincenzo Livatino e sua moglie Rosalia la vita sembrò fermarsi.

Rosario Livatino

E invece l’esempio luminoso di Rosario e la testimonianza dei suoi genitori avrebbero ancora dato molto alla Sicilia e al mondo.

Sobri e composti, vissero il loro dolore senza nasconderlo ma senza proclamarlo; piansero il loro figlio senza dolersi mai delle scelte che aveva fatto; nulla rivendicarono dallo Stato, da quello Stato per servire il quale Rosario non aveva potuto accompagnarli nella loro vecchiaia; non persero, anzi accrebbero la loro fede in quel Dio che insieme a Rosario tante volte avevano pregato e sotto la tutela del quale Rosario si metteva ogni giorno.

Al Presidente della Repubblica che li andò a trovare per i funerali chiesero perché si era preso tanto disturbo da fare un viaggio così lungo da Roma a Canicattì; a chi poneva loro domande sulla scorta che il figlio non aveva mai avuto, dicevano che così aveva voluto e che aveva avuto ragione, perché era morto lui solo e non altri padri di famiglia; quando vennero condannati i colpevoli dell’omicidio di Rosario, dissero solo che erano vecchi e non avevano la forza di seguire tutti i processi.

Invece di forza ne avevano tanta e la trasmettevano a tutti. Persino ad un Papa santo.

Il 9 maggio del 1993, Giovanni Paolo II andò in visita pastorale ad Agrigento; si era documentato moltissimo sulla mafia, ma, a differenza di tanti esperti, sentiva che per capirla a fondo tutti quegli studi non potevano bastare.

Il Vescovo di allora, Mons. Ferraro, gli presentò Rosalia Corbo e Vincenzo Livatino; Vincenzo si mise di fianco e lasciò alla moglie tutta l’attenzione del Papa, che le prese le mani, le tenne nelle sue e la fissò negli occhi amorevolmente; in questo lungo ed intenso momento trascorso da Rosalia e dal Santo Padre in un abbraccio di sguardi e in assoluto silenzio, Vincenzo restò da parte continuando a sussurrare: “Me l’hanno ammazzato, nemmeno quarant’anni”.

Racconterà Gianfranco Svidercoschi, biografo di Wojtyla e suo fedele accompagnatore, che, quando i genitori del “giudice ragazzino” si allontanarono, il Papa disse: “Ecco cos’è la mafia. Un conto è studiarla, un conto è vedere quello che ha provocato”.

Giovanni Paolo II (Valle dei Templi . 9 Maggio 1993)

Poi si avviò verso la valle dei Templi dove avrebbe celebrato una Messa storica, che avrebbe dato un impulso irreversibile alla pastorale della Chiesa.

Gli occhi e le mani di Rosalia, il mesto e dignitoso sussurrare di Vincenzo, la testimonianza semplice e vigorosa del loro figlio Rosario quante sensazioni avranno lasciato nel grande cuore di Wojtyla? Quante di tutte quelle che spontaneamente egli espresse nell’oramai celebre anatema contro la mafia?

“Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Lo dico ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!”

La potenza di quelle parole ricordava il velo del tempio squarciato in due dopo l’ultimo grido di Gesù crocifisso. E l’emozione, la rabbia che esprimevano non contrastavano per nulla con la mitezza delle persone che avevano concorso ad ispirarle.
Oggi Giovanni Paolo II è beato; da un anno è in corso il processo canonico diocesano di beatificazione per Rosario Livatino. Rosalia Corbo nel 2003 ha raggiunto il figlio e ha lasciato a Canicattì Vincenzo Livatino, che ha continuato, fino all’età di 93 anni, ad incoraggiare la buona volontà di uomini delle istituzioni e della società civile, additando Rosario come servitore dello Stato e martire della fede.
E’ morto, forse non ancora stanco, il 5 maggio dell’anno scorso.
I giudici ragazzini ne hanno tanta nostalgia.
Giovanbattista Tona (tratto da: “il Fatto Nisseno” di Maggio 2011)
httpv://youtu.be/LXif6Wwr5DU

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