Tregua ancora per pochi giorni, poi la ripresa dell’attacco di Israele stavolta concentrato nel sud di Gaza. E’ lo scenario delineato dal Washington Post per il futuro dell’operazione militare dello Stato ebraico nell’enclave palestinese, scattata in risposta al massacro del 7 ottobre da parte di Hamas.
econdo il giornale americano di area conservatrice, i giorni successivi alla tregua entrata in vigore venerdì scorso sono stati “luminosi” rispetto a settimane di “desolazione” e morti. I civili bloccati a Gaza hanno iniziato a ricevere gli aiuti, più di 90 ostaggi tenuti da Hamas sono stati rilasciati e in cambio Israele ha liberato oltre 200 palestinesi, molti dei quali erano in carcere senza accusa. Ma l’apparente miglioramento della situazione è solo il risultato di quello che c’è stato prima della tregua: Gaza è stata devastata da migliaia di attacchi aerei e combattimenti, con oltre 13mila palestinesi morti e l’80% della popolazione sfollata. E anche in Cisgiordania divampa la violenza.
Le previsioni per il futuro non lasciano ipotizzare nulla di positivo. Nonostante gli appelli delle Nazioni Unite e delle parti mediatrici, compreso il Qatar, la tregua sembra destinata a finire presto. Il governo del primo ministro, Benjamin Netanyahu, ha indicato che lo stop ai combattimenti non potrà durare più di 10 giorni, ovvero non oltre questo fine settimana. Dopodiché, Israele è determinato a riprendere la guerra dal momento che il suo obiettivo primario – la distruzione di Hamas – non è stato ancora raggiunto.
Ieri il capo dell’esercito israeliano, Herzi Halevi, ha dichiarato di aver approvato il piano di battaglia per i prossimi giorni. “Sappiamo cosa è necessario fare e siamo pronti per il passo successivo”, ha detto. Non è chiaro cosa implichi esattamente questo piano, ma l’unica strada per le forze israeliane sembra essere quella diretta a sud, evidenzia il Washington Post, sottolineando che funzionari israeliani ritengono che molti leader di Hamas siano fuggiti in questa zona da Gaza City e dal nord. Non a caso, prima che iniziasse la pausa, Israele aveva iniziato a lanciare volantini vicino a Khan Younis, una città nel sud della Striscia, chiedendo alla popolazione di spostarsi verso ovest.
La ripresa dell’operazione militare porta inevitabilmente con sé i timori, anche degli Stati Uniti, che possa verificarsi un’altra mattanza di civili. Si stima che circa due milioni di palestinesi ed un’ampia percentuale degli sfollati si trovino nella parte meridionale di Gaza, molti dei quali hanno già dato ascolto ai precedenti avvertimenti israeliani di lasciare l’area settentrionale, densamente popolata.
In privato, secondo il Washington Post, l’Amministrazione Biden ha iniziato ad ammonire gli israeliani sulla necessità di ridurre il più possibile le vittime civili. “Non possono fare nel sud quello che hanno fatto nel nord”, ha dichiarato un alto funzionario. Gli Stati Uniti chiedono rigidi limiti operativi su dove possano svolgersi le operazioni e la protezione di ospedali e strutture delle Nazioni Unite. E mentre Washington continua a lavorare per un’estensione della tregua, in patria Netanyahu subisce pressioni nel senso opposto.
“Fermare la guerra = mandare in frantumi il governo”, ha detto martedì l’esponente di estrema destra Itamar Ben Gvir, che ricopre il ruolo di ministro della Sicurezza nazionale nella fragile coalizione di governo. Non molto tempo dopo, Netanyahu ha detto che “non esiste situazione in cui non si torni a combattere fino alla fine”. Non è difficile capire perché le autorità israeliane si irritino all’idea di un cessate il fuoco prolungato. Se lo scopo più significativo di questo conflitto è distruggere Hamas, quel compito non è completo: chiaramente Hamas non è stato distrutto se tiene ancora degli ostaggi ed è in grado di negoziare il loro rilascio.
Israele, inoltre, deve fare i conti con l’enorme costo economico del conflitto, dato il numero di persone che ora lavorano nell’esercito piuttosto che nell’economia: la Banca Centrale prevede che la guerra con Hamas costerà 53 miliardi di dollari tra il 2023 e il 2025, con un colpo del 3% sul Pil.
Alcuni sostengono che valga la pena pagare il prezzo. “I costi della guerra sono a breve termine rispetto ai benefici a lungo termine derivanti dal ritorno delle persone a una vita sicura”, ha detto lo scorso fine settimana un funzionario israeliano a David Ignatius. Eppure, con così tanta incertezza sul prossimo round di combattimenti e nessun piano preciso su cosa accadrà a Gaza una volta finito il conflitto, potrebbe non essere un calcolo così semplice.