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Roberto Scarpinato, “Una sfida che chiama ciascun cittadino elettore alle sue responsabilità”

Una vita spesa per la giustizia, sulle frontiere dei rapporti tra criminalità e potere, tra mafia e politica, economia, mondo delle istituzioni. Sempre “non allineato”, svincolato da appartenenze politiche in un ambiente che spesso non ne è stato immune, considerato “eretico” dalle vestali degli schieramenti: Roberto Scarpinato, nisseno, magistrato dal 1978 fino allo scorso gennaio, ha fatto parte del pool antimafia con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è stato Procuratore Generale presso la Corte d’Appello a Caltanissetta e a Palermo.

Ha seguito da pubblico ministero tutti i processi più importanti sugli intrecci tra mafia e politica: l’assassinio di Piersanti Mattarella, di Pio La Torre, di Michele Reina, di Salvo Lima e di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Passa alla storia con il processo che mette sotto accusa gli intoccabili: Giulio Andreotti e Bruno Contrada. Le sue requisitorie sono considerate, oltre che atti giudiziari, analisi storico-sociali tra le più acute che siano state prodotte in Italia e pagine impegnate di letteratura civile.

Dopo le stragi del 1992 ha indagato a 360° sui “sistemi criminali” ed i retroscena che ne hanno costituito i moventi, sui rapporti tra mafia e massoneria deviata, sulla trattativa tra lo Stato e Cosa nostra, chiedendo la revisione del processo sui falsi pentiti della strage di via D’Amelio. Ha individuato e portato all’ergastolo, dopo 25 anni di rimozione giudiziaria, gli assassini dell’agente Agostino e di sua moglie. Ha diretto il Dipartimento mafia-economia, con un gruppo di investigatori specializzati che ha smantellato colossali patrimoni illegali.

Concluso il suo lavoro di cercatore della verità, oggi si mette in gioco nell’impegno politico, candidandosi al Senato come indipendente con il Movimento 5 Stelle, preparandosi ad incontrare corpo a corpo quel potere dal volto spesso oscuro che aveva combattuto nelle aule di giustizia.

  1. La sua candidatura viene letta come un impegno a riportare la lotta alle mafie al centro dell’azione politica. Cosa è mancato in questi anni?

Non solo contro la mafia, ma anche contro la corruzione nelle sue più svariate estrinsecazioni. Mafia e corruzione sono due forme di parassitismo sociale corresponsabili del declino economico del paese e del rischio di una cronicizzazione del sottosviluppo in Sicilia. Per vari versi hanno una caratteristica comune. Sono entrambe manifestazioni criminali che chiamano in causa la responsabilità di significativi settori delle classi dirigenti. La lezione della storia e gli esiti di tanti processi dimostrano che l’asse portante del sistema di potere mafioso è sempre stata la c.d. borghesia mafiosa e paramafiosa. Si tratta di un variegato campionario di colletti bianchi appartenenti ai mondi della politica, dell’economia, delle professioni che grazie, al metodo mafioso, hanno costruito carriere politiche, fortune economiche e posizioni di privilegio, arricchendosi sulle spalle dei cittadini onesti. La corruzione – che non a caso va a braccetto con la mafia – ha sottratto e continua a bruciare ogni anno miliardi di euro di risorse pubbliche che invece di essere destinate ai servizi sociali essenziali, vengono dirottati nelle tasche di tanti disonesti. Miliardi di euro divorati dalla corruzione equivalgono a tagli di posti letto negli ospedali, delle aule scolastiche, a tagli delle pensioni etc.

Dopo la stagione di Tangentopoli e di Mafiopoli che ha portato alla condanna di tanti “intoccabili”, è iniziata una stagione di regolamenti di conti del mondo del potere nei confronti della magistratura. In questi ultimi anni si stanno facendo molti passi indietro. Da una parte si smantella progressivamente la legislazione antimafia introdotta dopo le stragi del 1992 e del 1993 che aveva consentito allo Stato di ottenere straordinari successi, dall’altra si approvano e si annunciano nuove leggi finalizzate a sottoporre la magistratura al controllo del mondo politico e garantire così l’impunità di coloro che occupano i piani alti della piramide sociale.

Ho accettato la candidatura per dare il mio contributo su questi temi di rilevanza nazionale che sono strettamente connessi alla questione sociale. Sino a quando non ci libereremo dell’azione e dell’alleanza nefasta di clan mafiosi, di comitati di affari, di lobbies di potere e di malapolitica, non riusciremo a tirare fuori l’isola dalle secche in cui è precipitata, e a riprendere in mano il nostro destino.

  • Ogni anno dalla Sicilia emigrano più giovani in cerca di lavoro di quanti ne arrivano come migranti dagli altri continenti. Come contrastare questa desertificazione economica e sociale?

I giovani tra i 15 e i 34 anni, le donne, gli abitanti del sud sono quelli più penalizzati da una serie di riforme adottate dalla metà degli anni ’90 il cui scopo era di introdurre flessibilità nel mercato del lavoro per portare maggiore occupazione e aumento della produttività: dal pacchetto Treu del 1996 al Jobs Act del 2015, passando per la legge 30/2003, la riforma Fornero, il decreto Poletti. Queste riforme non solo hanno fallito i loro obiettivi perché la produttività è rimasta stagnante e gli investimenti non sono aumentati, ma hanno avuto gravi ricadute sociali negative. Hanno trasformato la flessibilità in precarietà lavorativa ed esistenziale, hanno svuotato progressivamente le tutele dei lavoratori ed hanno contribuito all’aumento delle disuguaglianze di reddito. Il lavoro a tempo indeterminato retribuito con paghe dignitose è stato sostituito da lavoretti precari sottopagati privi di tutele.

Le statistiche dell’Inps e dell’Istat, attestano che molti dei nuovi lavoratori sono impiegati per un numero ridotto di ore e percepiscono retribuzioni che non permettono di vivere dignitosamente. L’instabilità lavorativa vuol dire anche un incremento notevole di part-time, pari al 46% tra le donne, il dato più alto nella UE, contro il 18% tra gli uomini, con una prevalenza del part-time involontario. Il lavoro a termine è cresciuto negli ultimi due anni ed oggi ha raggiunto il picco storico di oltre 4,2 milioni di lavoratori, ovvero il 22,2% degli occupati. All’interno di questa precarietà, il problema dei contratti a termine di durata giornaliera o settimanale è allarmante: nel primo trimestre 2022, il 33,3% delle posizioni lavorative attivate a tempo determinato ha una durata prevista fino a 30 giorni (il 9,2% un solo giorno), il 27,5% da due a sei mesi e solo l’1,0% supera un anno.

Lavoro precario significa che i nostri giovani non possono elaborare un progetto di vita sicura, avere una sicurezza economica che consenta di avere figli e creare una famiglia, attivare un mutuo per la casa, avere la certezza di una pensione. Il futuro invece di essere una promessa diventa una minaccia e il presente una gara sfibrante di sopravvivenza.

Dobbiamo invertire la rotta. Il lavoro a termine deve essere l’eccezione, la regola deve essere quella dei contratti a tempo indeterminato.

Bisogna limitare proroghe e rinnovi di contratti a termine e incentivare economicamente e fortemente le stabilizzazioni con investimenti in capitale umano, soprattutto per le assunzioni di giovani. Ai giovani devono essere dedicate misure contrattuali specifiche, che a fianco all’apprendistato, incoraggino le imprese a costruire percorsi di carriera e stabilizzazioni, vietando tirocini gratuiti e stage a basso costo che spesso nascondono solo sfruttamento di manodopera.

E’inoltre necessariomodificare il Jobs Act, partendo dalla revisione del regime generale del licenziamento sia individuale che collettivo recependo i principi garantisti fissati dalla Corte costituzionale.

Occorre progettare un sistema in grado di offrire più opportunità, nuove tutele, più sicurezza, migliorando l’efficienza dei servizi di istruzione, orientamento, formazione e professionalizzazione; offrendo un congruo sostegno al reddito, ai tempi della formazione e ai tempi della professionalizzazione; dando vita ad un welfare pubblico adeguato alle nuove esigenze.

  • La Sicilia è diventata ormai marginale nell’azione dei governi; secondo Lei c’è un problema di identità culturale perduta, di scarsa rilevanza della società civile?

V è una grave responsabilità della classe politica isolana. Durante tutto il lungo periodo della c.d Prima Repubblica migliaia di miliardi di fondi statali invece di essere investiti per promuovere lo sviluppo economico e creare occupazione, sono stati in parte oggetto di sistematica predazione spartitoria da parte di cordate di potere, di gruppi di interesse e di lobbies, come è stato accertato in tanti processi penali. E in parte sono finiti nel buco mero dello sperpero clientelare e del voto di scambio, sono stati cioè utilizzati per finanziare enormi clientele che offrivano la propria fedeltà elettorale in cambio di favoritismi della più diversa specie.

Ad un certo punto “la festa è finita”. A seguito dell’adesione dell’Italia a Trattato di Maastricht che ha imposto rigorosi vincoli di bilancio, e alle politiche di austerity che hanno determinato una rilevante riduzione della quota di fondi pubblici destinati al Sud, la vecchia classe politica ha perduto la sua “bacchetta magica” e, incapace di rinnovarsi, ha progressivamente perduto significative quote di consenso non essendo più in grado di dare risposte ai problemi dell’isola.

Dall’ultimo rapporto Eurostat, risulta che la Sicilia, con un tasso di occupazione del 41 per cento, è tra le cinque regioni europee che registrano i dati peggiori insieme a Campania, Calabria, Puglia e alla Guyana francese. Nel 2021 il numero delle persone in povertà assoluta nel Mezzogiorno è cresciuto di 196 mila unità, pari al 12 per cento della popolazione. In Sicilia le persone a rischio povertà sono il 38 per cento, ponendo l’Isola sul podio delle regioni più in sofferenza.

Ora si presenta una occasione storica per lo sviluppo del Sud.

Il PNNR ha destinato al Sud il 40% delle risorse, una pioggia di miliardi. Questa soglia rappresenta un obiettivo più ambizioso di quello per i fondi ordinari per i quali a legislazione vigente nell’ambito dei programmi di investimento nazionale devono essere assegnate alle regioni del Mezzogiorno risorse in misura almeno proporzionale alla popolazione residente (pari a circa il 34 per cento della popolazione italiana).

Il “ritorno dei soldi” ha agito come un richiamo della foresta per tanti protagonisti della vecchia politica che sono tornati in auge e in campo, pronti a riprendere i metodi del passato, ivi compresi soggetti condannati per collusione con la mafia o per altri gravi reati.

Siamo dunque dinanzi ad una sfida che chiama ciascun cittadino elettore alle sue responsabilità. Sta a ciascuno di noi scegliere: vogliamo affidare ancora una volta le chiavi del nostro futuro alla vecchia politica responsabile del fallimento storico in cui ci troviamo, o vogliamo scegliere una nuova classe dirigente caratterizzata da onestà e competenza ?

Dobbiamo riprendere il destino nelle nostre mani, consapevoli che la classe dirigente settentrionale considera ormai marginale e irrilevante la questione meridionale.

E’ significativo che i due ministeri che non si sono attenuti all’obbligo previsto da decreto legge n. 77 del 31 maggio 2021 di destinare il 40 % dei fondi del PNRR al Sud, siano quelli del turismo (che ha destinato il 28,6%) e quello per lo sviluppo economico ( che ha destinato il 24,8%), entrambi retti da due esponenti della Lega: Massimo Garavaglia al Mitur e Giancarlo Giorgetti al Mise

  • La giustizia è un tema più grande delle aule dei Tribunali: è una vita segnata dalle ingiustizie che fa scegliere alla metà dei cittadini di non andare più a votare? Cosa fare, subito, per contrastare questa amputazione silenziosa e pericolosa di democrazia? Come tenere insieme lavoro e legalità in una realtà come la nostra, segnata dal lavoro nero, dal ricatto alle imprese, da un sistema di credito che non aiuta chi vuole investire nel lavoro produttivo?

Come ho già detto in altre occasioni, tanti studiosi concordano nel diagnosticare che siamo entrati una fase recessiva della democrazia. Alcuni parlano di un fenomeno di progressivo e sotterraneo ritorno alla politica dei clan. Venuti meno i grandi progetti collettivi, prevalgono gli egoismi personali e di gruppo.

La contesa politica reale si va riducendo ad una competizione tra clan sociali, cordate di potere, gruppi di interessi, ristrette oligarchie – legali, illegali, spesso una via di mezzo – interessati solo a spartirsi in un modo o in un altro le risorse collettive. Insomma un gioco tutto interno ai palazzi del potere nei quali vince l’una o l’altra cordata, ma comunque il cittadino comune perde sempre perché è fuori dai giochi.

In questo contesto i clan sociali di più antica esperienza e più spregiudicati come le mafie, le massonerie occulte, i comitati di affari trovano modo di compenetrarsi nel sistema, normalizzandosi.

Occorre opporsi a questo processo di degradazione. La stella polare da seguire è quella di dare piena attuazione al patto sociale indicato dalla Costituzione del 1948. Una Costituzione che per il suo impianto democratico antioligarchico e antiautoritario, è entrata da tempo nel mirino delle forze più reazionarie del paese che la vivono come un ostacolo ai loro progetti di ritornare al passato precostituzionale, ridando vita ad una società piramidale nella quale tutto il potere politico ed economico si concentra nelle mani di ristrette oligarchie e il popolo torna ad essere soggetto passivo della storia, come era ai primi del Novecento.

La difesa della Costituzione, dei suoi valori fondanti di solidarietà sociale, antitetici a quelli del pensiero neoliberista fondato sulla esaltazione degli egoismi individuali, rappresenta la linea Maginot sulla quale dovrebbe convergere tutte le forze progressiste e democratiche del paese. Sino a quando questa Costituzione resterà in vita, sapremo da dove ricominciare e quale direzione seguire. Se dovesse essere stravolta sarà un fine partita che farà ripiombare il paese nel suo peggiore passato.

  • Il ponte sullo Stretto torna nella campagna elettorale come un mito dello sviluppo possibile. È giusto così o c’è un’alternativa?

Il ponte sullo stretto non è stato previsto nell’ambito dei progetti finanziati dal PNRR.

Si tratta di un tema politico di rilievo che merita di essere inserito nell’agenda politica all’interno di una visione strategica di rilancio del meridione che grazie alla sua posizione strategica nel Mediterraneo, può diventate la punta di lancia dell’intero paese per svolgere un ruolo economico e geopolitico di primo piano, connettendo l’Europa continentale al bacino Sud del Mediterraneo. Già oggi, i porti del Sud Italia mobilitano oltre il 40% di tutto l’interscambio marittimo nazionale, dimostrandosi essenziali per l’intera logistica italiana.

Il Sud può diventare un hub logistico-portuale di primo piano in Europa, integrando intorno ai porti industria, università, innovazione e sostenibilità ambientale. In questo quadro occorre impostare una visione delle infrastrutture interconnesse tra loro, rilanciando un piano di potenziamento del trasporto merci e passeggeri su rotaia con linee di alta velocità dirette a creare una totale continuità tra Nord e Sud, ed un piano di trasporto dei nostri prodotti verso mercati esteri con aerei cargo.

  • La politica può ritornare ad essere l’organizzazione della speranza per tutti o ci dobbiamo rassegnare al leaderismo mediatico che spettacolarizza e ci rende tutti spettatori?

Gli antichi greci inventori della democrazia ritenevano un dovere primario dei cittadini di occuparsi della politica cioè della vita della Polis, perché se la Polis si ammala per la degenerazione oligarchica e autoritaria del potere, si ammalano anche le vite dei singoli. Il miglior antidoto contro il leaderismo è la partecipazione attiva e vigilante di tutta la cittadinanza. A coloro che dicono che non sono interessati alla politica, gli antichi greci avrebbero risposto: Se tu non ti occupi di politica, la politica si occupa comunque di te, e se la politica, anche a causa del tuo disinteresse, finisce nelle mani di peggiori, ti troverai da un giorno all’altro ridotto da cittadino a servo.

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