Primopiano

Giuseppe Cimino, una fine tragica per una vita difficile che ci parla ancora

Ha amato la politica Giuseppe Cimino, e ha amato la cultura giuridica e istituzionale che nella sua visione le dava sostanza ed efficacia, ed ha voluto impegnarsi nella sua vita per esprimere il suo contributo al governo della sua comunità, spesso studiando come pochi facevano per trovare soluzioni ai problemi.
Uomo di letture raffinate e di linguaggio ricercato, portava nel dibattito del Consiglio comunale parole impegnative e ragionamenti complessi. Non sempre compreso, non sempre popolare, spesso in situazioni scomode, difficili. Come quando aveva fronteggiato una tumultuosa assemblea cittadina che seguiva il Consiglio Comunale al Palacannizzaro sul tema scottante delle super bollette della nettezza urbana, di fronte ad una folla inferocita sull’orlo del linciaggio ed i capipopolo populisti (oggi tutti uomini delle istituzioni) che sul piazzale bruciavano le bollette della spazzatura inneggiando alla rivolta. Imperterrito, aveva snocciolato i dati della sua analisi contabile e aveva motivato i provvedimenti amministrativi pesanti e inevitabili, in una città, peraltro, in cui da sempre la metà degli utenti la nettezza urbana non l’aveva pagata mai, caricando sulla restante metà dei cittadini il peso delle spese di tutti.


Poi ha avuto una fase più amara, una caduta nell’amministrazione dell’ATO Rifiuti che gli è costata processi e condanne, che ha affrontato con la dignità di chi ammette subito le proprie responsabilità e se ne assume gli oneri, giudiziari ed economici, senza recriminare, anche a costo di stravolgere la propria esistenza e quella della propria famiglia. Famiglia di cui è stato sempre amorosamente fiero.
Ha dimostrato come si possa mantenere la dignità anche quando si sbaglia, si cade, si risponde alla giustizia, come può capitare a tutti gli esseri umani nella loro fragilità. Non sempre la nostra comunità cittadina, la società civile, l’informazione, la politica, hanno risposto con rispetto e misericordia a questa solitudine tormentata, abitata da sensi di colpa e desiderio di pace.
La sua fine, forse desiderata come scriveva negli ultimi tempi sui social, dovrebbe farci riflettere sulla qualità dei nostri legami sociali, che determinano il nostro modo di essere (o non essere) comunità, sulla nostra capacità di confrontarci con i lati meno luminosi della vita sociale senza moralismi e ostracismi assolutori, che proiettano sul capro espiatorio, anche quando il debito con la società e la giustizia viene pagato, la nostra incapacità di costruire un sistema veramente impermeabile all’illecito, capillarmente resistente e refrattario alle tentazioni della corruzione. Un sistema capace di educare con la reciprocità dell’esempio e di recuperare con il riconoscimento della dignità di ogni essere umano, piuttosto che di espellere il capro espiatorio di turno mentre magari si continuano a cercare protezioni e connivenze vantaggiose nelle nuove frontiere che il sistema di potere è capace di schiudere per consolidare la propria base di consenso.
Sono molti decenni oramai che non sappiamo più leggere insieme la nostra realtà come un mosaico collettivo, atomizzati come siamo nella dimensione individuale, egoistica e per questo antipolitica, delle nostre esistenze povere di futuro. Ricominciare a farlo potrebbe essere il modo migliore per non ignorare con l’indifferenza la vicenda di un nostro concittadino che ha qualcosa da dirci ancora.

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