Primopiano

Settimana Santa 2020: la Pasqua del silenzio e il dopoguerra delle nostre anime

Ci accompagnerà il silenzio verso la Pasqua, quest’anno, dopo una Settimana Santa con le strade vuote, le chiese senza popolo, le Vare conservate, la Maestranza in apnea per un anno e il Cristo Signore della Città rimasto inchiodato nel suo Santuario senza il suo baldacchino dorato.

La pandemia ci ha segregato nelle nostre case, e ognuno ci vive con l’agio corrispondente allo status della posizione che è riuscito a farsi nella vita: ognuno chiuso nella sua storia individuale, negli spazi segnati dalla sua condizione, nel bene e nel male. Soli.

Ci mancherà il nostro ritrovarci come popolo, ad affollare lo spazio pubblico convocati dai riti della Passione, l’unica passione a cui non abbiamo ancora rinunciato. Tutti insieme, persino quasi tutti uguali, in mezzo alla folla, sicuramente tutti uguali davanti al Crocifisso che sfila nel silenzio carico di commozione di ognuno che nel cuore si riconosce straziato dentro quasi quanto Lui, schiacciato dai suoi fallimenti e dalle sconfitte che ci fanno umani.

Siamo popolo ormai soltanto una volta l’anno, noi nisseni, quando ci ritroviamo immersi nella fiesta, sacra e profana, in cui ci riconosciamo, finalmente identificati con i simboli dell’eternità entrata nella storia, simboli che il lavoro secolare di artigiani, zolfatai, imprenditori ha materializzato nella cartapesta delle Vare e delle Varicedde modellate sui capolavori dell’arte senza tempo. Quando vediamo sfilare la Maestranza e ricordiamo il lavoro, la sua dignità, l’onore di rappresentarlo, da più di cinquecento anni. Oggi che non riusciamo più a farlo vivere con le nostre mani.

I riti della Settimana Santa fanno parte integrante della nostra identità collettiva, e ognuno li può vivere in corrispondenza con il proprio essere: o assistendo da spettatori, come davanti a uno spettacolo traboccante di colori, suoni, luci suggestive, o spogliandosi l’anima e cercando di farsi strada dentro il Mistero, di ritrovare il sentiero spirituale dove si riesce a parlare con Dio, senza maschera, dignitosi nella coscienza della nostra miseria personale e delle nostre incapacità sociali.

La tradizione scandisce il tempo della nostra vita e gli dà il ritmo della storia, alleggerendola dalla responsabilità delle nostre scelte individuali. È perfetta, la tradizione, per conservare un’identità in grande stile senza faticare troppo per esserne all’altezza. È una consolazione, un bene rifugio, un’eredità che ci copre le spalle.

Improvvisamente quest’anno non la ritroveremo, questa tradizione, salteremo questo ritmo del tempo della nostra esistenza, entreremo, forse, in un’altra dimensione della nostra esperienza collettiva. Spogliati della cornice di solennità che rende dignitoso anche un ricordo irrimediabilmente perduto.

Potrà essere l’occasione per ritrovare una nostra autenticità, un saper essere noi stessi assumendoci la responsabilità di avere un’anima vera, anche se spoglia, dolorante, ammaccata dalle sconfitte ma ancora viva, con il desiderio di esistere, di uscire dal vuoto?

Se vorremo che sia così, la Pasqua spoglia e vissuta dentro l’anima avrà la forza di una ricostruzione che parte da dentro e non ha bisogno delle scenografie barocche per spettacolarizzare il proprio vuoto. La nudità che questa pandemia sta imponendo al momento più solenne e appassionato del nostro tempo collettivo forse ci chiederà di tornare ad avere un corpo reale, una volontà di essere, una energia attiva, senza il veleno suadente e invisibile dell’autodistruzione che da sempre è l’altra faccia della nostra identità nissena.

Forse quest’anno il Signore ha voluto sfidarci a incontrarlo nel deserto, senza lo schermo delle sue immagini, a vederlo nel vuoto, ad ascoltarlo nel silenzio, a parlargli con le parole della nostra povertà che possiamo offrire come l’unica preghiera autentica di noi.

Non possiamo perderla questa occasione, non possiamo svenderla nella sequela delle lamentazioni sterili che cercano sempre un colpevole fuori di noi per rassegnarci alla sconfitta senza combattere.

Non è facile avere il coraggio di ascoltare il silenzio, senza evadere nel ritmo dei rumori di fondo, ascoltarlo, nel vuoto che si srotola dentro di noi, stando in piedi da soli, anche zoppicando, ma senza mimetizzarsi in una folla che non ci chiede di essere popolo.

Quest’anno abbiamo la possibilità di farlo, di provarci almeno, di scoprire chi siamo senza consolazioni scontate. Il dolore si assapora autenticamente quando lo si vive attraversando il deserto e il buio che ci scopriamo dentro senza averne paura o fingere di negarlo, decidendo di trovare una luce da seguire, senza fermarci a piangere sulle nostre ferite, ma curandole seguendo quella luce.

Pasqua è passaggio, attraversamento, in direzione ostinata e contraria a quello che di solito avviene: si passa dalla morte alla vita, non viceversa. Non possiamo cercare ancora alibi per avere paura della vita e non della morte. Forse possiamo passare davvero dal buio alla luce.

La pandemia che ha portato vicino a noi la paura di morire, forse possiamo sfidarla, se vogliamo, superando la paura di vivere, accettando la sfida nella solitudine, nel silenzio, nel raccoglimento dei nostri arresti domiciliari per fare vivere veramente la Passione e la Resurrezione dentro di noi: pensando, scavando nei nostri sentimenti, comprendendo e comprendendoci, non per assolverci e sfuggire, ma per ricostruire una coscienza combattiva, come in un dopoguerra delle nostre anime, che, forse, possiamo liberare dalle macerie di tante sconfitte rimosse, ma mai dimenticate.

Condividi