Attualità

Nel giornalismo (per fortuna) la solidarietà tra colleghi non esiste

È un mestiere solitario, il giornalismo. Non di categoria. Appena spunta la categoria, si ammoscia il giornalismo. E viceversa. Le due domande (inutili) che spesso fanno capolino nelle polemiche tra singoli giornalisti e Potere sono, in sequenza: “Come mai i colleghi non si sono alzati?”, e “Dov’è l’Ordine?”.

Alla prima, non ci sarebbe neppure bisogno di rispondere. I colleghi non si alzano e se ne vanno in segno di solidarietà, per il semplice fatto che – se non in casi assolutamente eccezionali e mirati – la solidarietà tra colleghi non esiste. E per fortuna. Per il disbrigo quotidiano degli scazzi con potente di turno, come nel caso del videomaker di Repubblica, se la vedrà direttamente l’interessato col suo direttore. Gli altri sono lì pagati dal loro giornale, non dalla confraternita del piagnisteo. (Naturalmente, chi tra questi ride delle difficoltà di un collega è senza dubbio un povero coglione, oltre che un giornalista modesto).

Quando molti e molti anni fa, erano i primi anni di Galliani, Berlusconi e Sacchi, capitò al cronista d’essere messo alla porta dal villaggio del Milan, prima singolarmente, poi con tanto di ordine di servizio esteso a tutto il giornale, all’epoca ”Il Giorno”, tutti i quotidiani scrissero di noi, persino L’Espresso!, essendo il fatterello di un certo grido. Ne fummo felici, ovviamente, ma non ci si aspettava molto altro. Nessuno pretendeva che gli altri non salissero più a Milanello per le sedute di allenamento della squadra, lasciando il Milan in splendida solitudine, sarebbe stato ridicolo. E poi chissenefrega. Noi si era già piuttosto orgogliosi del casino che avevamo messo in piedi, probabilmente il primo di quel tipo nella storia del calcio moderno. Il Milan, con un comunicato, spiegò quel gesto estremo con la teoria che “Milanello è la nostra casa” e dunque facciamo come cazzo ci pare. Direi salviniani ante litteram, anche se ad illustrarlo non venne un simil Morisi, ma quel gran galantuomo di Guido Susini che all’epoca guidava la comunicazione cacciavite. (Anche qui, una modesta precisazione: fummo cacciati da Milanello solo perchè davamo notizie, che magari dovevano restare coperte, ma insomma niente più di quello.)

Quella vicenda insegnò molto a tutti noi del Giorno. Ci insegnò quanto si può godere se il potente si incazza con il solo uso del mestiere e in quel caso la reazione scomposta di Galliani&C. fu il nostro più acuto godimento. Facendo le debite proporzioni, come se un operaio sulla linea della Panda avesse fatto incazzare terribilmente l’Avvocato.

Quando si sostiene che la solidarietà nel giornalismo non esiste ed è molto meglio così, si intende semplicemente sottolineare l’ipocrisia profonda che ne governa i tratti, soprattutto nel rapporto che lega gli stessi giornalisti al potere. Mantenersi a una distanza di sicurezza dalla fascinazione per il potente non è semplice, va detto. In special modo quando il rapporto è assiduo, quasi quotidiano, quando il cronista è “assegnato” a un certo partito o a una certa squadra di calcio o una certa multinazionale.

Speriamo di non scandalizzare i lettori ancora virginali, se riveliamo un’altra “variabile” di questo rapporto: se quel cronista nasce con una simpatia per quel partito (o per il leader di quel partito), per quella squadra di calcio, per quella multinazionale. In questo caso, il suo lavoro è fortemente sotto osservazione, perchè potrebbe succedere – e succede – che l’interessato indulga a una qualche benevolenza, se non proprio a smaccato asservimento. In questi casi si cristallizzano le situazioni, si materializza il paradosso che un cronista tiene in scacco un intero giornale, lo commissaria politicamente, si costruisce il suo reticolato oltre il quale nessuno può accedere, neppure il direttore. Per molti anni, giusto per fare un esempio del passato, una delle due squadre di Milano (la seconda, via) venne seguita dal più grande giornale italiano attraverso le cronache di uno straordinario giornalista, che però aveva l’unico difetto d’esserne accesissimo tifoso. Capirete che molto di quello che andava in pagina era una realtà del tutto parallela.

Ma c’è anche un’altra faccia della medaglia e forse questi sono i tempi. Quando il cronista che segue un certo partito, un certo leader, ne è intimamente (ma anche poi pubblicamente, magari sui social) un fiero oppositore e come lui il giornale per cui lavora. In questo caso si corre il rischio opposto, che le sue cronache siano permeate eccessivamente di coloriture, grazie soprattutto alla copertura “politica” che ti offre il giornale, decisamente schierato contro questo o quel leader.

Nella quasi totalità dei casi, non c’è soluzione. O meglio, forse ci sarebbe ma potrebbe produrre una sollevazione interna che ogni direttore vuole evitare. La soluzione sarebbe quella di far ruotare i cronisti, averli sempre freschi, dargli un tempo X per raccontare un certo partito, una certa squadra, e poi cambiare e andare da un’altra parte, anche se il lavoro fatto è stato soddisfacente. Simpatie e antipatie si annullerebbero, a nessuno sarebbe concesso il tempo di perdersi in eccessive confidenze. Certo, la risposta dei nostri colleghi la conosciamo: e poi come facciamo a crearci i rapporti, a seminare per raccogliere notizie? Beh, è presto detto: le notizie non le date in ogni caso, per cui il problema è risolto alla radice.

Quindi non raccontiamoci bubbole. La solidarietà non esiste perchè non esiste un sano rapporto con il Potere. Pensate solo al governo di Matteo Renzi. Per tutto il tempo che è rimasto in sella, intorno all’imbrunire, planava sui telefonini dei cronisti una velina da piccione viaggiatore spedita dal suo ufficio comunicazione. Avete mai sentito che la «categoria» ne abbia fatto una questione, o che sia sorto l’angoscioso interrogativo “Dov‘è l’Ordine”? No. La si sarebbe letta direttamente il giorno dopo in edicola.

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