L’APPROFONDIMENTO. Caltanissetta, depistaggio Borsellino: 3 poliziotti a giudizio 

CALTANISSETTA  – Lo Stato processa un pezzo di se stesso per il depistaggio dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio, “uno dei piu’ gravi della storia giudiziaria italiana”, con servitori infedeli dello Stato che convinsero piccoli criminali a trasformarsi in “pentiti” di Cosa nostra per costruire una falsa verita’ sull’attentato al giudice Paolo Borsellino, spiegavano, in uno dei passaggi cruciali, le motivazioni, depositate a fine giugno, della sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta che nell’aprile 2017 ha chiuso il quarto processo sulla strage di via D’Amelio. Adesso la decisione del giudice nisseno di rinviare a giudizio tre poliziotti. Una nuova svolta nell’infinita storia giudiziaria di questa strage che ora si appresta ad affrontare un quinto processo, nel quale se da un lato c’e’ un pezzo dello Stato sotto accusa, dall’altra, tra le parti civili, siedono i boss scagionati: un incredibile e clamoroso cortocircuito.
“La verita’ verra’ fuori solo se loro parlano e rompono questo muro di omerta’. Questo e’ un inizio, nella consapevolezza che ci sono grossi pezzi dello Stato implicati in questa vicenda”, ha commentato Fiammetta Borsellino, “il silenzio di questi poliziotti e’ peggio dell’omerta’ dei mafiosi. E, poi, come e’ possibile che i magistrati non si siano accorti di quello che stava accadendo?”.
– L’AGGRAVANTE DI AVERE FAVORITO I BOSS Per la prima volta la procura nissena chiama a rispondere uomini dello Stato del depistaggio per l’eccidio del 19 luglio 1992. Vanno a processo dal 5 novembre il funzionario Mario Bo e i poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei accusati di calunnia in concorso. Ai tre i pm contestano l’aggravante secondo la quale con la loro condotta avrebbero favorito Cosa nostra. Tra le parti civili i figli di Paolo Borsellino, Manfredi, Lucia e Fiammetta, quelli di Adele (sorella del giudice), il fratello di Paolo, Salvatore, anima delle Agende rosse. Parti civili anche i boss Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana, Gaetano Scotto e Natale Gambino, accusati ingiustamente e poi scagionati e che hanno gia’ citato in giudizio come responsabile civile la presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero dell’Interno, chiedendo un risarcimento di 50 milioni.

La Corte d’Assise, nelle 1865 pagine delle motivazioni critica il team che indago’ sulla strage sotto la guida di Arnaldo La Barbera, il funzionario di polizia morto per un tumore nel 2002. Gli inquirenti avrebbero convinto il falso pentito Vincenzo Scarantino a fornire una versione distorta dell’esecuzione dell’attentato e avrebbero messo in atto il depistaggio.
– CONVERGENZA DI INTERESSI I magistrati avanzano anche il sospetto che si sia voluta occultare la “responsabilita’ di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato”. La Barbera, in particolare, sarebbe stato coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa di Borsellino. Il piano aveva un movente non definito, il presunto regista e’ ormai morto: l’ex capo della task force investigativa Arnaldo La Barbera, comprimari come Bo ed “esecutori” come Ribaudo e Mattei. Palese l’inattendibilita’ di Scarantino emersa davanti a decine di magistrati: pur protagonista di mille ritrattazioni, le sue accuse hanno retto fino in Cassazione. Ingiustamente condannati all’ergastolo Salvatore Profeta, Gaetano Scotto, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana e Giuseppe Urso, poi scagionati nel processo di revisione.
– “INVESTIGATORI DEPISTARONO, PM NON RIGOROSI” Il depistaggio dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio fu portato avanti grazie all'”attivita’ degli investigatori che esercitarono in modo distorto i loro poteri”, secondo la corte d’assise di Caltanissetta che parla, dunque, del “pilotaggio” delle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino, pressato perche’ accusasse innocenti. Le sue scarse “capacita’ di reazione” furono azzerate a suon di botte e con una sorta di lavaggio del cervello, grazie alla quale il falso pentito indirizzo’ le indagini sulla fase esecutiva dell’attentato. Gli investigatori avrebbero coordinato e reso sovrapponibili i vari contributi dei falsi collaboranti, segnati da “anomalie nell’attivita’ di indagine”, non rilevate pero’ dagli inquirenti e dai giudicanti, nonostante, “nel corso della collaborazione dello Scarantino”, ci fosse stata “una serie impressionante di incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni”. Responsabilita’ di La Barbera si’, dei tre poliziotti pure, ma l’atteggiamento del falso pentito-picciotto della Guadagna e tutti i dubbi emersi su di lui “avrebbero logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle sue dichiarazioni, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero”.

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