Monica Contrafatto: la bersagliera di bronzo

La vita spesso ci atterra, bisogna rialzarsi. Il pugile che finisce al tappeto tenta disperatamente di rimettersi in piedi, di riprendere a combattere, di non mollare e quando non ci riesce, l’acre sapore della sconfitta lo accompagna lungamente. Ma anche il quel caso, riprende ad allenarsi per tornare sul ring, per ricominciare a vincere. Non tutti hanno la capacità di reagire ed esistono persone che da questa capacità, creano un vessillo di riscatto, scrivono delle storie che servono a guidarci, a instradarci, ad insegnarci. In questo ristretto novero di combattenti, spicca il nome di Monica Graziana Contrafatto, gelese, di 25 anni. Lei ha scritto pagine di storia sportiva e militare, di etica e coerenza, di rivincita su un destino apparentemente cinico e baro, di chi ha fatto brillare una luce di speranza negli occhi di chi l’ha guardata. Una vita che racchiude in se tante vite: medaglia al valore dell’esercito e bronzo alle Paralimpiadi di Rio 2016 nei 100 metri piani categoria T42.
Poche righe non possono spiegare, non riescono a descrivere le pieghe dell’anima, il colore delle emozioni, dal verde militare, al rosso sangue della terribile ferita, al bronzo delle Paralimpiadi: raccontano di un caleidoscopio impareggiabile, di una donna “incapace” di arrendersi. Per Monica, tutto inizia nella sua città, a Gela, in provincia di Caltanissetta, quando vide il fez (copricapo, quello senza piume, rosso con il cordoncino blu) dei bersaglieri: amore a prima vista. La meditata e non facile scelta di entrare nell’esercito, caporalmaggiore ovviamente dei bersaglieri. Sempre a guardare al futuro, agli altri, alla severa consapevolezza di indossare un uniforme con tutte le responsabilità che comporta. Marzo 2012: seconda missione in Afghanistan, il solco è segnato, aiutare gli altri. “La mia più grande passione. Siamo là per aiutare, l’ultima cosa che usiamo sono le armi. Gli abitanti ci hanno salvato la vita in certe situazioni. Ho negli occhi quei bimbi meravigliosi. Gli dai una boccetta d’acqua e sembra gli regali il mondo. Nel sorriso che ti fanno è dentro il loro cuore”.
Il destino è in agguato sotto forma di mortaio, 24 marzo 2012 alle ore 18:00 locali (14:30, ora italiana): una pioggia di bombe centra la base “Ice” nel distretto del Gulistan, nella provincia di Farah in Afghanistan, nel settore Sud-Est dell’area di responsabilità italiana, assegnata alla Task Force South-East.
“Dopo la prima andai d’istinto verso i mezzi, non verso il centro antimortaio”. Incita i commilitoni a recarsi nel bunker. Fu la seconda a centrarla. “Sì, con qualche problema”. Le schegge colpirono una gamba, l’arteria femorale, l’intestino, una mano. Lei vigile, continua a fornire indicazione, il senso del dovere la sorregge. “Non sentivo dolore, vedevo solo il sangue scorrere”. La gamba destra sarà amputata, l’arteria femorale cambiata con la vena safena, l’intestino tolto per mezzo metro, per la mano sarà utilizzato un osso della gamba. In mezzo anche un’embolia polmonare.
“A pensarci bene non molti danni” nei suoi occhi l’immagine, accanto a lei, a pochi metri, del corpo del sergente Michele Silvestri: è morto per quei colpi di mortaio, lasciando moglie e un figlio di otto anni. Lei mostra un coraggio non comune, una volontà ferrea. Il l4 maggio 2015 è stata la prima donna soldato dell’Esercito Italiano ad essere decorata: in quel giorno ha ricevuto, in cerimonia solenne, la Medaglia al valore dell’esercito.
Mai un passo indietro, un bersagliere va sempre di corsa. Lei non arretra, non batte ciglio durante la lunghissima degenza, la faticosa fisioterapia: è pronta a rialzarsi. La ‘molla’ scatta una sera, davanti alla tv, una sera di fine agosto del 2012, una folgorazione: “Trasmettevano le gare della Paralimpiade di Londra. Non sapevo cosa fossero. Mi fermai a guardare. E in quei giorni non feci altro: le corse con amputati, Oscar Pistorius, ciechi che giocavano a calcio, un cinese senza braccia che vinse nel nuoto. Mi si aprì un mondo. C’erano gli atleti e non la disabilità”. Vide correre i 100 metri e vincere l’oro, davanti a 80 mila persone che l’osannavano, una giovane di Bergamo, Martina Caironi, la più grande sprinter amputata del mondo: “Sei a Roma? Parla con Nadia Checchini”. E’ una delle allenatrici della Nazionale di atletica paralimpica. E’ lei a seguirla, mostrare come e cosa fare. Il sogno per Monica diventa Rio 2016. “Voglio diventare un’atleta con le stellette e vincere una medaglia alla Paralimpiade. Per il mio Paese”. Non è sua abitudine mollare, in nessun settore. “Ho lasciato il mio lavoro a metà. A costo di perdere pure l’altra gamba, voglio tornare là, in Afghanistan. Ad aiutare per costruire la pace”.
Ancora una pagina di storia scritta questa volta con lo sport. Quattro anni di duri ed intensi allenamenti per mantenere la promessa. In Brasile conquista, la prima nella storia di Gela e della Provincia nissena, il bronzo nei 100 metri piani categoria T42 con il tempo di 16”30. A fine gara sorride senza sosta: “Grazie ai miei allenatori, a chi mi ha seguito. Grazie a Gela, tutta la città mi ha visto tramite il maxischermo allestito in piazza. I miei concittadini mi hanno dato tanta forza. Mi sono sentita una farfalla, quattro anni fa ero in un letto d’ospedale, adesso ho disputato la finale alle Paralimpiadi”. Il sorriso contagia: “Invito chiunque abbia una disabilità ad accostarsi allo sport paralimpico, ti libera! Io grazie allo sport sono rinata.
Sport parabola di vita e talvolta di risurrezione come insegna anche la storia di Alex Zanardi che alla soglia dei 50 anni, ha difeso con successo l’oro olimpico conquistato 4 anni fa nelle Paralimpiadi di Londra, trionfando a Rio de Janeiro nella prova della cronometro, categoria H5. E’ solo l’ultimo sigillo della splendida storia dell’ex driver di Formula 1, che dopo aver perso le gambe in un incidente nella CART (serie automobilistica americana) è rinato sportivamente nel paraciclismo, divenendo uno degli uomini di punta del movimento, e un esempio, per la sua grande forza di volontà. Dopo il gravissimo incidente, Zanardi subì l’immediata amputazione degli arti inferiori e rimase in coma farmacologico per giorni. Solo dopo 15 operazioni poté lasciare l’ospedale ed iniziare il difficile e lungo processo di riabilitazione. Non smette mai di ripetere: “Quando mi sono risvegliato senza gambe ho guardato la metà che era rimasta, non la metà che era andata persa. Non volevo dimostrare niente a nessuno, la sfida era solo con me stesso, ma se il mio esempio è servito a dare fiducia a qualcun altro, allora tanto meglio. Ci si può drogare di cose buone e una di queste è certamente lo sport”.

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