Rassegna stampa. L’ansia degli italiani a Londra: «Fuori dall’Europa più discriminati»

Trovi italiani dappertutto: negli uffici comunali, nella sanità, pure nei club più esclusivi come Boodles. Londra ti dà quel senso di libertà e dinamismo che in Italia non trovi. Qui non contano le raccomandazioni

Sono per l’Europa la City e i sindacati, il Times e il Financial Times , la Banca d’Inghilterra e i capi dei tre partiti tradizionali. Sono contro l’Europa quasi tutti gli interventi in rete e quasi tutti gli adesivi sulle auto, gli speculatori più spregiudicati e il tabloid più economico, il Daily Express : 10 penny, 14 centesimi. E tutto questo passa sulla testa dei 600 mila italiani che vivono nel Regno Unito – in gran parte a Londra – e non possono decidere del proprio destino. Hanno diritto di voto i cittadini del Commonwealth che risiedono qui: giamaicani e neozelandesi, australiani e bengalesi, maltesi e ciprioti; ma italiani e francesi, spagnoli e tedeschi, polacchi e portoghesi devono attendere e sperare.

Londra: la settima città italiana per abitanti. Londra è la settima città italiana per abitanti, ma in termini economici pesa molto di più: perché tutti lavorano. Sono residenti qui Gianluca Vialli e Gianna Nannini, gli ex ministri dell’Economia Grilli e Siniscalco (anche Saccomanni ha casa), ereditieri e start-upper. Sono italiani il direttore della National Gallery Gabriele Finaldi, il curatore della Tate Modern Andrea Lissoni, il maitre di Rules – il ristorante più antico – Demis Rossi, l’inventore di Candy Crush Riccardo Zacconi, un giochino da sei miliardi di dollari. Per loro il referendum del 23 giugno non cambierà molto, anzi è possibile che in una Londra fuori dall’Unione europea le tasse scendano ancora. Poi ci sono le due categorie più rappresentate, e preoccupate: i finanzieri e i camerieri. Il businessman e il barman.
Se vincesse Brexit, come indicano i sondaggi – ma la partita è apertissima – si apre un’incognita. E nessuno ha un’idea chiara di quel che sarà delle loro vite.


Il businessman: «Temo visti e quote». Giovanni Sanfelice, 39 anni, è il presidente del Business club degli italiani a Londra. Famiglia napoletana – discende da Luisa Sanfelice, aristocratica giustiziata per aver scelto la rivoluzione – accento milanese. «La prima volta sono arrivato a 17 anni, l’estate dopo la terza liceo scientifico, in una fattoria del West Sussex: all’università sognavo di fare agraria. Tutto il giorno nei campi a strappare erbacce prima della trebbiatura; ho fatto pure lo spaventapasseri; e la sera lezioni di contabilità. Ho deciso allora di fare la Bocconi. Sono tornato per lavorare alla Ing Barings, l’ex banca della regina. Ero nell’ufficio che vendeva i bond dei Paesi emergenti, in particolare Argentina e Russia. La situazione a Buenos Aires e Mosca era drammatica, ma la sera i colleghi tornavano a casa tutti contenti. Solo anni dopo ho capito: stavano piazzando titoli che non sarebbero mai stati rimborsati. Allora ho deciso di non fare il broker. Adesso ho una società di consulenza con un’inglese figlia di un’ australiana e di un iraniano: infatti lavoriamo molto con Milano e con Teheran. Soltanto qui un trentenne ha queste opportunità. Si investe, si rischia, si assume; certo, se non funzioni ti prendono da parte e ti dicono che sei fuori. Per questo la competizione è fortissima, lo stress è terribile».
Racconta Sanfelice che gli italiani hanno un vantaggio: «All’inizio eravamo sottovalutati. Non ci hanno visto arrivare. Ora trovi italiani dappertutto: negli uffici comunali, nella sanità, pure nei club più esclusivi come Boodles; gli inglesi mantengono solo il monopolio dei taxi». E se vince Brexit? «Non si sa. Forse introdurrebbero visti, quote, limiti per le cure mediche. Forse cambierà poco. Di sicuro ci sentiremo ancora più discriminati. Perché sopra le nostre teste resiste il soffitto di vetro. Certi posti sono riservati alla “ruling class”, alla classe dominante formata nelle scuole della tradizione imperiale». Il dibattito non è tanto economico, quanto politico e culturale. Gli inglesi rivendicano la loro identità, a costo di privarsi della linfa vitale degli immigrati. Sanfelice non crede alla grande fuga dalla City: «Qualche banca si è già spostata in Svizzera, dove però le case e le scuole sono ancora più care. Londra resta una grande medusa che attira tutti, prende il meglio e tritura gli scarti. Le società sono attente a trattenere i talenti: temono la concorrenza di Google e delle start-up, riconoscono potere anche ai giovanissimi; alla Barclays dopo quattro anni sono gli juniores a giudicare i dirigenti. Nella finanza gli italiani sono considerati i più svelti a comprare e a vendere; funzioniamo meno nel raccogliere i soldi, per cui servono contatti costruiti nel tempo. La grande differenza è che qui il capitale non viene chiuso in cassaforte; diventa merce di scambio e strumento di crescita. E questa non è una cultura che si possa esportare facilmente; neppure se vince Brexit».
«Londra è un hub globale» come dice l’ambasciatore Pasquale Terracciano (non un tipo da party: sbarcò a Bengasi in gommone assieme al generale Graziano per prendere contatto con i ribelli libici). Un volano di investimenti finanziari. Però i medici del Great Ormond Street Hospital, l’ospedale pediatrico dove lavorano anche infermieri italiani, hanno lanciato l’allarme: senza i fondi Ue, la ricerca si ferma.

ll barman che arriva sempre secondo. Lorenzo Antinori, 29 anni, non discende dagli aristocratici toscani del vino. E’ venuto qui la prima volta a lavorare in un pub di Brixton, quartiere giamaicano. Si è laureato in giurisprudenza a Roma3. «Sognavo di fare il procuratore di calciatori; ma il corso della Fgci costava talmente tanto che sono tornato a Londra. Mi hanno preso al bar del Savoy come bar-back, garzone: pulivo i bicchieri, svuotavo la lavastoviglie. Ho fatto tutta la carriera interna fino a senior bartender, il vice del bar-manager. Nel libro del Savoy ci sono tre cocktail di mia invenzione: uno a base di ratafia e due a base di rum, il Panamerican Highway e il Neverending story, dove c’è anche il liquore al cacao e una goccia di assenzio. Adesso sono responsabile del bar al Mondrian, il boutique hotel in riva al Tamigi. Ogni anno sono in finale al campionato di cocktail, e ogni anno arrivo secondo: deve sempre vincere un inglese». Ma loro come ci guardano? «Con simpatia ma anche con superficialità. Ci trovano charmant, rumorosi, affabulatori. Insomma: piacioni, casinari, provoloni».
Antinori, come tutti gli italiani, tifa per il Remain. «Noi siamo ospiti. Potremo restare? I barman sono molto richiesti: non si ha idea di quanto bevano gli inglesi; i migliori hanno offerte da Singapore e Hong Kong, ora anche da Filippine e Nigeria. Ma gli altri ragazzi? Conosco bene la loro vita, perché l’ho fatta. Non mettono da parte nulla: il mio primo stipendio era 1100 sterline, ne pagavo 600 d’affitto e 120 di metropolitana. La città è divisa in sei zone, sei cerchi concentrici: ti avvicini o ti allontani a seconda della fortuna. Londra però ti dà quel senso di libertà e dinamismo che in Italia non trovi. In Italia sei sempre lì a fare certificati; qui non contano le raccomandazioni, solo il merito. La precarietà non è legata a un contratto ma al valore: se non vali ti mandano via; se vali puoi crescere. E’ questo sentimento di essere padroni della propria sorte a fare la differenza. Se Brexit ce lo togliesse, sarebbe dura».
E non si sa se prevalga l’orgoglio per gli italiani di Londra, o il rimpianto perché se ne sono andati. (di Aldo Cazzullo, fonte corriere.it)

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