Pier Paolo Pasolini, 40 anni senza il suo genio: ucciso il 2 novembre del 1975. Poeta, narratore, drammaturgo, appare oggi profetico e provocatorio

Quando, negli ultimi anni, prima di morire ucciso nel 1975, Pier Paolo Pasolini svolge la sua attività ”corsara” e ”luterana”, come intitolerà i suoi scritti, oltre a denunciare le trame e l’astrattezza del Palazzo, oltre a dichiarare ”io so, ma non ho le prove” relativamente alla storia recente del Paese, scrisse che l’Italia stava vivendo ”un processo di adattamento alla propria degradazione”.

Oggi, a quaranta anni di distanza, non si può dire che quel processo sia concluso, ma certo quelle parole risultano drammaticamente profetiche. E’ anche per questo, per la sua critica ”all’edonismo consumistico” e ”al conformismo interclassista”, per aver colto, segnato e rappresentato un momento profondo di cambiamento della nostra società, dalle antiche tradizioni e cultura contadina, al materialismo e la violenza del dopo boom economico, che nel 1973 ha la sua prima e grave crisi, che Pasolini ha finito per diventare un punto di riferimento continuamente citato, eppure cassandra inascoltata, e la sua figura è finita quasi santificata, grazie anche ai misteri mai risolti legati alla sua morte violenta, al suo martirio.

Intellettuale vivace, intelligente e curioso, in anni in cui gli intellettuali erano anima della vita sociale e politica, artista multiforme, poeta, narratore, drammaturgo, regista cinematografico, filologo, critico, giornalista e polemista, quando la commistione di generi era ancora vista con sospetto, in tutto ciò in cui si è provato ha portato un tocco di personale innovazione, ha messo la sua vena polemica e provocatoria, frutto anche dell’essersi misurato con una vita difficile, contrastata e sofferta, esibita e patita e difesa.

Nato a Bologna nel 1922, girovaga per i paesi in cui viene trasferito il padre militare, poi dal 1937 torna a Bologna dove studia, segue all’Università le lezioni di un maestro come Roberto Longhi, fa amicizia con il gruppo di Leonetti e Roversi (coi quali negli anni ’50 fonderà ”Officina”), collabora a riviste e pubblica in friulano le ”Poesie a Casarsa”, il paese dell’amatissima madre Susanna. Viene richiamato 15 giorni prima dell’8 settembre 1943, quando fugge e ripara proprio a Casarsa dove sono sfollati la madre e il fratello minore Guido, che, partigiano autonomista, nel 1945 resta ucciso in scontri con partigiani favorevoli a Tito, fatto che lo spingerà a un maggiore impegno politico e all’iscrizione al Pci, mentre inizia a insegnare.

Nel 1949, accusato di corruzione di minori del suo stesso sesso, per lo scandalo venne sospeso dalla scuola e radiato da partito e, come costretto a fuggire, si trasferisce a Roma (ne parlerà 30 anni dopo in”Amado mio” e ”Atti impuri”). Se per Pasolini, e lo testimoniano i suoi primi versi, il Friuli era luogo quasi sognato, ”di una civiltà pre-capitalista – come ha scritto Vincenzo Mengaldo – e intrisa di religiosità primitiva, la quale si sottrarrebbe alla devastante ruspa della storia, opponendole la sua autenticità incontaminata”, così felici e liberi nella loro istintuale esistenza e sessualità sono i ”Ragazzi di vita”, romanzo scandalo del 1955, scritto invece in un romanesco non reale, mimetico, ma allusivo e reinventato letterariamente (quattro anni dopo arriverà ”Una vita violenta”). L’originalità e il dibattito aperto da queste opere mettono Pasolini al centro dell’attenzione culturale e mediatica e da allora la sua vita non fa che arricchirsi e diventare sempre più pubblica, compresa la sua sessualità, mentre lui cerca la provocazione, è ”l’ultimo apocalittico radicale” come scrive Sanguineti , è assertivo e mai dialogico nelle sue esternazioni (arriva a chiedere che vengano sospese la scuola dell’obbligo e la televisione), nelle sue nostalgie e nelle sue visioni, nel suo non accettare alcuna omologazione, che è poi il suo dato più eversivo. Non resta allora che citare i suoi titoli principali, i versi delle ”Ceneri di Gramsci”, ”La religione del mio tempo, ” Poesie in forma di rosa”; i romanzi ”Il sogno di una cosa”, il bel ”Teorema” (che nasce in seguito all’omonimo film) e il postumo e ambizioso ”Petrolio”, i drammi in versi, dopo il ”manifesto per un nuovo teatro”, ”Orgia”, ”Calderon” e ”Affabulazione”, che proiettano nel mito i complessi temi psicologici della sua opera; quindi i film, a partire dal 1961 con ”Accattone”, poi ”Mamma Roma” e ”La ricotta”, e ancora ”Edipo Re” e il nuovamente scandaloso e intensissimo ”Vangelo secondo Matteo”, sino al ”Decameron” e all’estremo, perché ultimo e per l’apocalittico pessimismo che lo pervade, ”Le 120 giornate di Sodoma”.

A tutto questo si aggiungono volumi di saggi letterari e raccolte di articoli, pubblicati appunto tra l’altro coi titoli ”Lettere luterane” e ”Scritti corsari”. Un’eredità articolata, ricca, che cresce col tempo, la cui attualità, come scrisse il suo amico Gian Carlo Ferretti, ”riposa nella duplicità, nell’ambivalenza drammaticamente esibita fra pubblico e privato, fra l’opera e l’uomo, fra la pagina scritta e l’offesa quotidiana sopportata in pubblico e in pubblico denunciata e urlata”. (Fonte ansa.it)

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