I raid contro le navi americane e alleate furono una mossa disperata con le sorti della battaglia del controllo del Pacifico indirizzate in modo inesorabile a favore degli Usa. Il fallimento degli scontri navali e aerei convenzionali per fermare l’offensiva e l’avanzata statunitense non lasciavano spazio che al sacrificio estremo. Il capitano Motoharu Okamura, un asso dei cieli e pilota di aerei sperimentali fin dagli anni ’30, ne era convinto. “Credo fermamente che l’unico modo per portare la guerra a nostro favore sia ricorrere ad attacchi suicidi con i nostri aerei. Ci saranno più che sufficienti volontari per sfruttare l’occasione di salvare il nostro Paese”.
La prima forza kamikaze era composta da 24 piloti volontari della 201/mo gruppo aereo della Marina imperiale. Gli obiettivi erano le portaerei di scorta statunitensi: una, la San Lo, fu colpita da un caccia A6M Zero e affondata in meno di un’ora, uccidendo 100 americani. Più di 5.000 piloti suicidi morirono nel golfo distruggendo 34 navi. Un trend destinato a ripetersi e a coinvolgere i piloti-ragazzini, appena diciottenni. Un sacrificio estremo che non impedì la conquista alleata delle Filippine, di Iwo Jima e Okinawa, fino alla capitale Tokyo.
Per le loro incursioni, i kamikaze impiegarono velivoli convenzionali e aerei imbottiti di esplosivo o benzina o appositamente progettati e chiamati Ohka (“fiori di ciliegio”) dai giapponesi e Baka (“inganno”) dagli americani, visto che erano dei velivoli-razzo sganciati dal bombardiere. La tradizione della morte invece della sconfitta, della cattura e della vergogna era profondamente percepita e radicata nella cultura militare giapponese. Fu alla base dei principi cardine della vita del samurai e del suo codice, il Bushido: lealtà e onore fino alla morte. (Fonte ansa.it)