Una strage di 60 anni fa. Sete d’acqua e di giustizia: Mussomeli 17 febbraio 1954


guttuso donne contadineMezzogiorno di fuoco a Mussomeli quel 17 febbraio del 1954: la manifestazione di protesta delle donne del paese, accorse in più di duemila sotto le finestre del Comune a protestare per l’acqua, che manca da sei giorni,  viene “dispersa” a colpi di bombe lacrimogene  che provocano il panico tra la folla, che si accalca disperatamente nell’unica viuzza di uscita dalla piazza, un budello largo non più di tre metri. Tre donne e un ragazzo muoiono schiacciati, sotto “un mucchio di corpi pesti e feriti alto circa due metri” (come avrebbe riferito in Parlamento il Sottosegretario agli Interni il giorno dopo).

Tutte le generazioni sono state colpite dalla strage: Giuseppina Valenza di 72 anni, Onofria Pellitteri, di 50 anni, madre di 8 figli, Vincenza Messina di 25 anni, madre di 3 figli e in attesa del quarto, e un ragazzo di 16 anni, Giuseppe Cappalonga, andato in piazza a prendere la sorellina per riportarla a casa. Nove i feriti gravi, tra cui un bambino di 7 anni, Baldassare Mistretta, con il cranio fracassato.

Cos’era successo? Già il giorno prima migliaia di cittadini avevano protestato al Comune per l’acqua: dopo sei giorni non ne arrivava una goccia in paese, nemmeno nelle fontanelle pubbliche, nonostante il passaggio, l’anno prima,  dell’acquedotto comunale all’Ente Acquedotti Siciliani, che aveva garantito 8 ore d’acqua tutti i giorni, ed entro un anno l’acqua corrente 24 ore su 24.

Ma l’acqua non era arrivata mai. Invece il messo comunale aveva cominciato a notificare ai mussomelesi bollette esorbitanti per il consumo dell’acqua degli ultimi due anni da pagare all’EAS, anche per chi non aveva ancora l’acqua corrente a casa, conteggiando 500 lire l’anno per chi andava ad attingere per strada, alle fontanelle pubbliche.

L’esasperazione popolare aveva investito il Sindaco, che aveva promesso di dare risposte chiare il giorno dopo, anche rispetto alle richieste di sospensione dei pagamenti. Ma l’avvocato Sorce il 17 febbraio non si era fatto trovare in Municipio, e, dalla Pretura dove si era asserragliato, aveva ordinato al maresciallo dei carabinieri, Sturiale, di procedere d’autorità a disperdere i dimostranti sulla piazza.

Il lancio dei candelotti lacrimogeni aveva provocato effetti devastanti. Il Governo avrebbe riferito alla Camera dei Deputati il giorno dopo, la versione ufficiale dei fatti:

“Furono lanciati 7 candelotti di lacrimogeni contro la folla, i dimostranti impauriti sbandarono e cercarono rifugio tra la via della Vittoria e Piazza Chiaramonte. Lì per un tragico caso si trovava un giovane manuale, Francesco Spoto, che portava un regolo di legno per muratori lungo 4 metri e largo 3 centimetri. Malamente il regolo di legno, dato che allo sbocco di via della Vittoria si aveva un punto largo poco più di tre metri, rimase all’estremità attaccato al muro. Sull’ostacolo inciamparono e venivano travolti decedendo sul posto: Giuseppa Valenza, Vincenza Messina, Giuseppa Cappalonga e Onofria Pellitteri.”

Quello stesso giorno si presentava alla Camera per la fiducia il nuovo Governo, presieduto da un siciliano, l’unico a ricoprire questa carica nella storia repubblicana: Mario Scelba, già tristemente famoso nei primi anni del dopoguerra da Ministro degli Interni per la sua repressione poliziesca delle manifestazioni operaie e contadine, in cui i reparti della “Celere” avevano sparato sulla folla provocando numerosi morti.

Quando Scelba aveva preso la parola, dopo un dibattito infuocato in cui parlamentari di tutti i partiti avevano chiesto al Governo di individuare con chiarezza le responsabilità di quello che era accaduto, tutti i deputati dell’opposizione, dopo un intervento di Togliatti in persona, avevano lasciato l’aula in segno di protesta.

Era il clima incandescente di un Paese in cui il conflitto sociale si manifestava con tutta l’asprezza di un dopoguerra il cui costo pesava sulle spalle dei più poveri, dei lavoratori del Sud, dei contadini che avevano lottato per la riforma agraria (a Mussomeli era stata epica la battaglia per l’assegnazione del feudo di Polizzello, in cui i gabelloti mafiosi avevano accolto  con i mitra spianati la marcia dei contadini per la quotizzazione del latifondo), e degli zolfatari che si asserragliavano in sciopero per settimane nel sottosuolo per qualche lira in più di salario al giorno.

Nelle aule del parlamento quel conflitto si trasformava in una battaglia politica ad alta tensione, anche morale, in cui tutti i leader si impegnavano quotidianamente sui problemi delle periferie del Paese, e l’eco di quelle lotte dei lavoratori risuonava nel Palazzo e scandiva i tempi dell’”agenda politica”, molto diversamente da quanto avviene oggi.

La lettura della società era il pane quotidiano di quella politica, e il dibattito della Camera del 3 giugno 1954 sui fatti Mussomeli, sollecitato da nuove interrogazioni di tutti i gruppi, avrebbe fatto emergere trame inquietanti dietro alla strage per l’acqua del febbraio.

“Chi è il sindaco di Mussomeli? – si chiedeva in quella seduta il deputato nisseno Guido Faletra – E’ un uomo di paglia della mafia, messo a quel posto, non per tutelare e difendere l’interesse dei suoi concittadini ricchi e poveri e di qualunque colore politico, ma per vigilare affinchè l’interesse degli agrari e della mafia non venga leso.”

A Mussomeli i morti per l’acqua non avevano avuto giustizia. Anzi, nella notte del 1° aprile un rastrellamento notturno aveva  prodotto 60 arresti tra i familiari delle vittime e dei manifestanti, accusati di “adunata sediziosa”, e di avere assaltato il Municipio minacciando di invaderlo.

“Cosi’ Mussomeli è stata punita severamente una seconda volta, dopo i morti e i feriti – incalzava alla Camera il deputato Calandrone – punita la popolazione di Mussomeli per avere osato protestare contro l’ingiustizia atroce, contro il danno e la beffa di dovere pagare profumatamente quell’acqua che essi non avevano avuto!”

Ne sarebbe seguito un processo paradossale, dopo indagini condotte dallo stesso maresciallo dei carabinieri che aveva ordinato il lancio dei lacrimogeni responsabile della strage; con carabinieri che in aula sbagliavano ad indicare i manifestanti che dovevano dire di riconoscere, con un collegio di difesa dei parenti delle vittime composto dai principi del foro della Sicilia e guidato da Umberto Terracini, (il Presidente dell’Assemblea Costituente che ha apposto la sua firma in calce alla Costituzione), ma in cui la sentenza era prevedibilmente scontata, a tutela del Sindaco e dei Carabinieri:  un processo concluso con 27 condanne, la più pesante delle quali, (nove mesi di reclusione), al Segretario della Camera del lavoro, Salvatore Guarino, che non era stato neppure presente in piazza quel giorno.

Le condanne dell’ottobre 1954, confermate in appello, avrebbero rappresentato, per anni, l’”epurazione politica” del paese: decapitato il movimento sindacale e politico dei contadini, e poi,  fallita la riforma agraria, un’ondata di emigrazione avrebbe portato lontano, all’estero e al nord,  migliaia di lavoratori e di famiglie.

In quel 1954, d’estate, morto a Villalba don Calogero Vizzini, aveva preso il suo posto di “capo dei capi” della mafia siciliana proprio il boss di Mussomeli, Giuseppe Genco Russo, già sindaco del paese nominato dagli anglo-americani nel 1943, che qualche anno dopo, nel 1960, sarebbe stato eletto a furor di popolo consigliere comunale e assessore  nella lista della Democrazia Cristiana.

E ancora per tanto tempo, i cittadini di Mussomeli avrebbero desiderato l’acqua come una grazia del cielo e non come un diritto ad un bene comune. Che un referendum recente, già dimenticato dal Palazzo, ha persino stabilito che debba essere gratuito.

                             

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