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L’APPROFONDIMENTO. Borsellino: 26 anni fa la strage, quell’agonia di terrore e silenzi 

Redazione

L’APPROFONDIMENTO. Borsellino: 26 anni fa la strage, quell’agonia di terrore e silenzi 

Gio, 19/07/2018 - 09:31

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PALERMO Solo 57 giorni separano le stragi di Capaci e via D’Amelio. Quasi un’agonia individuale e istituzionale. Terrore e silenzi. Un attentato contro Giovanni Falcone era da tempo temuto, quello contro Paolo Borsellino apparve dolorosamente annunciato, ma entrambi si consumarono in un contesto di insipienza istituzionale, mai spiegata fino in fondo, tra incapacita’ e complicita’, che alla luce della sentenza del Borsellino quater, assume i contorni sempre sospettati di un “colossale depistaggio”. Sono passati 26 anni. Alle 17.58 del 23 maggio, sull’autostrada Trapani-Palermo, nei pressi di Capaci, la tremenda esplosione che uccide Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo. Circa 500 chili di tritolo sistemati dentro un canale di scolo deflagrano mentre transitano le Croma.
Poco piu’ di un mese dopo, il 25 giugno, nel corso di una manifestazione promossa da Micromega Paolo Borsellino denuncia la costante opposizione al lavoro e al metodo di Giovanni Falcone di parti consistenti delle istituzioni, che hanno agito per isolarlo e ostacolarlo: “Secondo Antonino Caponnetto Giovanni Falcone comincio’ a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione. Oggi che tutti ci rendiamo conto di quale e’ stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha piu’ colpe di ogni altro, comincio’ proprio a farlo morire il primo gennaio del 1988, quando il Csm con motivazioni risibili gli preferi’ il consigliere Antonino Meli“.
L’ultima intervista televisiva Paolo Borsellino la concede a Lamberto Sposini, per il Tg5, venti giorni prima di morire: “Io un sopravvissuto? Ricordo cio’ che mi disse Ninni Cassara’ allorche’ ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985. Mi disse: ‘Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano’. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo, e’ una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che e’ necessario che lo faccia, so che e’ necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare“. “Dal 23 maggio in poi ci sono una serie di evidenti segnali”, racconta il magistrato Antonio Ingroia al primo processo per la strage di via D’Amelio: “Paolo Borsellino comincio’ ad essere perfettamente consapevole della particolare sovraesposizione in cui si trovava”. 

E ripeteva Borsellino: “Giovanni Falcone era il mio scudo, dietro il quale potevo proteggermi. Morto lui, mi sento esposto e adesso sono io che devo fare da scudo nei vostri confronti”. I 57 giorni cominciano a scorrere inesorabili. Borsellino aveva un “chiodo fisso”, cosi’ lo chiamava. Scoprire gli autori dell’eccidio di Capaci. “Quando avro’ le idee piu’ chiare sul contesto e la pista giusta – confido’ a Ingroia – consacrero’ le mie dichiarazioni alla Procura di Caltanissetta: non voglio legarmi le mani oggi, con una verbalizzazione, quando ancora devo verificare una serie di cose che potrebbero essere importanti per lo sviluppo delle indagini”. Inizia a rileggere alcuni appunti di Falcone, alla ricerca di uno spiraglio di verita’. Sfoglia quelle pagine per giorni. “Era assolutamente convinto di trovarsi di fronte a una strage di Cosa nostra – spiega Ingroia ai giudici della Corte d’assise – ma il punto era cercare episodi, particolari filoni investigativi che potessero aver costituito una causa determinante o scatenante del fatto stragista. Ricordo che diceva: Giovanni non aveva l’abitudine di tenere un diario. Se pero’ ha deciso di appuntare frasi e riferimenti ad alcuni episodi, vuol dire che dietro questi fatti c’e’ molto di piu’ di quanto non appaia“. Ma in quella ricerca, sembra solo. Paolo Borsellino sta gia’ ripercorrendo la stessa sorte di Giovanni Falcone. Ha comunque il tempo di riprendere alcune delle intuizioni di Giovanni Falcone, cura l’inizio della collaborazione dei pentiti Leonardo Messina e Gaspare Mutolo. Capisce che dietro la spartizione degli appalti si sviluppano inediti rapporti fra mafia e politica.
Una domenica d’estate, e’ il 19 luglio 1992, Paolo Borsellino, 51 anni, da 28 anni in magistratura, procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano dopo aver diretto la Procura di Marsala, pranza a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia. Poi si reca con la sua scorta in via D’Amelio, dove vivono la madre e la sorella. Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre con circa 100 chili di tritolo a bordo, esplode al passaggio del giudice, uccidendo anche i cinque agenti. Sono le 16.58. La deflagrazione, nel cuore di Palermo, viene avvertita in gran parte della citta’. L’autobomba uccide Emanuela Loi, 24 anni, la prima donna poliziotto entrata a far parte di una squadra di agenti addetta alle scorte; Agostino Catalano, 42 anni; Vincenzo Li Muli, 22 anni; Walter Eddie Cusina, 31 anni e Claudio Traina, 27 anni. Unico superstite l’agente Antonino Vullo.