Salute

Il “sistema Montante” e la nostra vita quotidiana

Fiorella Falci

Il “sistema Montante” e la nostra vita quotidiana

Dom, 10/06/2018 - 19:57

Condividi su:

CALTANISSETTA – È stato un 25 aprile? La “liberazione” dal sistema-Montante ad opera della Magistratura e della Polizia, con gli arresti eccellenti che hanno riportato Caltanissetta all’attenzione dei media nazionali, sembra non avere sconvolto più di tanto il caos calmo della società nissena.

Se fosse stato un 25 aprile avrebbe dovuto essere preceduto da una lotta di popolo, come per la Resistenza al nazifascismo, per contrastare l’occupazione del territorio, della sua economia, della società civile, da parte di una rete di dominio che faceva riferimento al capo dei capi degli imprenditori della legalità con una solida struttura di intelligence e di protezione che penetrava fin nel cuore dello Stato, nelle sue istituzioni e nelle sue forze armate.

Ma questa lotta di popolo non c’è stata, né ora né prima. E non sembra ci siano le premesse perché possa svilupparsi nell’immediato futuro. Si sono consegnate senza colpo ferire le istituzioni e l’economia all’occupazione del Presidente e dei suoi sodali, con alleanze strategiche, generatrici di governi regionali, controllo delle istituzioni economiche, persino onorificenze dalla Presidenza della Repubblica, in un turbine di impostura, come l’avrebbe chiamata Leonardo Sciascia.

Per anni abbiamo visto sventolare sulla Sicilia la bandiera della legalità come un brand commerciale, per accreditare la scalata di un gruppo di potere ai vertici nazionali di Confindustria, persino con la delega per la legalità imprenditoriale, l’Agenzia per i beni confiscati alla mafia e la direzione di quel Progetto della Zona Franca della Legalità che avrebbe dovuto risollevare l’economia del nostro territorio con una serie di misure e di investimenti che in anni e anni, qui, non si sono visti mai.

Il bello è che, almeno a Caltanissetta, tutti sapevano cosa c’era dietro le quinte di quel teatro: le società per i movimenti immobiliari composte anche da signore eccellenti, gli incarichi professionali a 360°, le relazioni privilegiate con alti gradi delle istituzioni giudiziarie corroborati da opportunità professionali per i rispettivi ambiti familiari, persino la benevolenza dei sindacati.

Si sapevano pure le cifre dei finanziamenti elettorali al “presidente della rivoluzione”, quello stesso paladino della legalità che, per esempio, doveva combattere le ecomafie e il business dei rifiuti e che invece ha lasciato intatto il sistema delle discariche private miliardarie, guarda caso guidate da uno dei suoi presunti finanziatori, vertice di Confindustria regionale e braccio destro del Presidente.

Tutti sapevano e sussurravano, la specialità dell’intelligence dei nisseni, anche se non hanno mai il coraggio, o la passione civile per denunciare apertamente o per sfidare il potere. Preferiscono affiancare chi è più forte, i nisseni, anche solo camminando di lato: osservare, omettere, tacere per opportunità, per quieto vivere, sempre meno consapevoli del confine che passa tra l’omissione di soccorso e l’eutanasia, della loro società, del futuro dei loro figli, della loro dignità di popolo. Non si può sapere mai… Del resto i business più importanti, da sempre, in Sicilia, sono quelli che non si vedono e di cui si parla il meno possibile.

Peraltro è interessante anche la tempistica di tutta questa indagine, con la scoperta spettacolare della stanza blindata piena di dossier personali da utilizzare come ipoteche morali o come arma di ricatti possibili. E tempi lunghi per arrivare agli arresti, scanditi dagli avvicendamenti ai vertici istituzionali e giudiziari, che non sono passati inosservati, al silenzio attento e parlante dei nisseni.

Per anni, sulla legalità si sono costruiti anche percorsi educativi, incontri con gli studenti, che spesso ci indicavano le ragioni del loro scetticismo, mostrando di percepire in profondità la simulazione, la manipolazione, il travisamento della verità, anche senza averne le prove, come scriveva Pasolini. Perché spesso conoscevano le famiglie, frequentavano le case, e i ragazzi capiscono al volo, soprattutto quello che non si dice.

“Double face”: non ci poteva essere titolo migliore per questa operazione, che solleva il sipario delle troppe ambiguità e dei paradossi impersonati dai paladini virtuali di una legalità taroccata, che serviva da schermo per fare affari da insospettabili, dopo aver rottamato, anche per via giudiziaria, i vecchi squali della prima generazione degli speculatori collusi.

La modernizzazione dei sistemi di potere aveva ridefinito anche lo styling dei referenti politici: non più i vecchi onorevoli-capibastone con gli occhiali scuri e le bretelle, roba da dopoguerra; nel terzo millennio le icone mediatiche della legalità, i testimonial-glamour, i senatori-legalità-e-sviluppo, arrivavano ai vertici nazionali delle istituzioni antimafia. Non cavavano un ragno dal buco, ma facevano tendenza, e tanta audience da far parlare i ministri dell’interno di “apostoli della legalità” con ammirata devozione.

È stato definito un sistema, quello costruito in questi anni intorno al brand della legalità: una struttura di controllo e condizionamento delle risorse, delle attività imprenditoriali, delle istituzioni economiche, politiche e giudiziarie, funzionale ad alimentare interessi particolari indossando l’aureola dell’impegno antimafia ma imponendo alla società una sottomissione senza scampo al comando di chi decideva per sé, per il proprio gruppo, senza nemmeno porsi il problema di una parziale redistribuzione delle risorse nel territorio, anzi, localizzando altrove i propri investimenti e i propri profitti.

Ma un sistema ha bisogno di penetrare nella società, di organizzarla a suo uso e consumo, di gestirne gli interessi, di muovere le persone che si lascino utilizzare, un sistema coinvolge tutti, e non basta decapitarlo con le azioni giudiziarie, se la sua struttura sociale rimane configurata alla dinamica scambio-sottomissione.

Forse anche questo sistema si può considerare una “struttura di peccato”, come San Giovanni Paolo II, 25 anni fa, nella Valle dei Templi aveva definito la mafia. Un meccanismo di dominio, di controllo, di sfruttamento, che alla violenza dei proiettili aveva sostituito la violenza del ricatto, dell’intimidazione, dell’estorsione di consenso. Un sistema che aveva imposto il potere dell’illegalità praticata camuffata da legalità proclamata.

E a questo sistema tanti, troppi, in tutti i settori della società civile, hanno scelto di piegarsi, di cercare un accomodamento confortevole, di ritagliarsi briciole di posizionamento sociale, di costruire percorsi di promozione individuale, all’ombra di un potere arrogante e aggressivo quanto privo di un progetto efficace di società, facendolo diventare un modello di potere sociale accettato globalmente, tramandato alle giovani generazioni, inoculato nel DNA delle nostre comunità, come una modalità fisiologica.

È possibile che il “sistema” sia molto più diffuso, pervasivo e radicato di quanto non si possa pensare, né si esaurisca con gli arresti eccellenti: possono essere solo la punta emergente di un iceberg, che nasconde qualcosa di ancora più strutturato e capillare, capace di intrecciare cointeressenze e connivenze a 360°. Non bisogna fermarsi nell’analisi allora, può essere un’occasione per rileggere e ripensare la nostra situazione economica, sociale e politica e cambiare pagina in profondità, senza accontentarsi del “mostro in prima pagina”, talmente mostro da rassicurare tutti noi che il sistema non ci riguarda. Non è così, altrimenti non sarebbe un sistema.

È significativo e paradossale il silenzio della politica su ciò che è stato il “sistema” e sugli intrecci che ha costruito e che continuano ad esistere. Quella politica, di governo e di opposizione, che si accompagnava con grande spiegamento mediatico ai paladini della legalità, li ha accreditati e ne è stata accreditata, (perfino con gli editoriali de “L’Unità”) dimostrando una fragilità estrema delle proprie capacità di essere classe dirigente, capace tuttalpiù di apparecchiare Consigli di Amministrazione e tavoli di “concertazione”, senza saper costruire politiche economiche, indirizzi imprenditoriali, orientamenti sociali che diventino requisiti dell’etica pubblica, qualità delle istituzioni, in una parola capacità di governo.

È paradossale e significativo che non ci sia stato uno straccio di interrogazione parlamentare su queste vicende: la Regione, la Camera, il Senato, il Parlamento Europeo non se ne occupano, e i nostri eletti in queste istituzioni, sembra abbiano ben altro da fare. O sapevano già tutto prima, quello che c’era da sapere, e non c’era bisogno di interrogare nessuno?

La lezione che possiamo ricavare dal terremoto giudiziario di queste settimane, al di là degli esiti delle indagini che non ci compete anticipare e qualunque essi siano, interroga ciascuno di noi sulla responsabilità che abbiamo, di contrastare nella nostra quotidianità, tenacemente, radicalmente, questa mentalità di disponibilità alla sottomissione, prima che diventi una cultura di massa e una nuova antropologia della prostituzione sociale, interrogandoci e ragionando insieme su come sia possibile ricostruire condizioni di lavoro, di impresa, di vita delle nostre comunità che sappiano fare a meno della “flessibilità” ciecamente sottomessa al linguaggio dei segni dei poteri illegali, comunque travestiti, da smascherare, senza sconti per nessuno, a cominciare da noi stessi.

Dovremmo ricominciare a leggere in profondità quanto è avvenuto in questi anni, quali trasformazioni ha portato, quali piste di intervento si possono attivare oggi, quali energie impegnare, contrastando la finta democrazia dei social e cercando di investire le intelligenze dei giovani nella costruzione e nella connessione di interventi che facciano del nostro territorio un sistema virtuoso. Senza limitarsi alla discussione ma traducendola in esperienze, sperimentazioni,laboratori di sviluppo.

Come si è fatto in questi anni col microcredito, le micro-imprese attivate dalla Caritas, e come si delinea in questi mesi con la proposta delle cooperative di comunità, spingendo per generalizzare questi modelli, con coraggio, uscendo dalla dimensione del nascondimento prudente e provando a farne un modello integrato di sviluppo del territorio, coinvolgendo le università, competenze di altri territori, aggregando interessi puliti, e ce ne sono, ce ne possono essere tanti, e possono crescere, se li si mette a sistema.

In una provincia che, come la nostra, fa registrare (paradossalmente) un volume di depositi bancari e di risparmi notevolmente superiore agli indicatori medi del resto del Paese, perché non sperimentare sistemi di investimento produttivo, garantiti dalle istituzioni, che rendano queste risorse disponibili in un circuito dinamico, a servizio di esperienze di lavoro e di sviluppo?

Davvero pensiamo che non ci sia più niente da fare per uscire dalla palude? Il futuro è la nostra responsabilità. Non possiamo continuare a disinteressarcene, anche se costa una grande fatica, perché saremo chiamati a rispondere anche delle nostre omissioni.

Fiorella Falci

Pubblicità Elettorale