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Leandro Janni: note a margine di “Sicilia dunque penso” – 2018

Redazione

Leandro Janni: note a margine di “Sicilia dunque penso” – 2018

Lun, 04/06/2018 - 09:39

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CALTANISSETTA – RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO. «Sai cos’è la nostra vita? La tua e la mia? Un sogno fatto in Sicilia. Forse stiamo ancora lì e stiamo sognando». (Leonardo Sciascia, “Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia”). 

«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». (Italo Calvino, “Le città invisibili”)

«Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell’angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale; una, infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio». (Gesualdo Bufalino, “Aforismi”)

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Si è concluso ieri, sabato 2 giugno 2018, “Sicilia dunque penso”, il festival nisseno di libri, incontri, arte e sapori. Quest’anno dedicato ai “sogni”. Quest’anno si è festeggiata la 5^ edizione. Anche quest’anno non sono stato invitato tra i relatori del festival. Che dire? Forse si potrebbe dire: Sicilia dunque penso male! Già. Ma lasciamo perdere.

Quest’anno, venerdì 1° giugno, nella piazzetta della Chiesa di Santa Maria della Provvidenza, hanno avuto luogo tre incontri: il primo a cura di Nino Arrigo, intitolato “Un paese ci vuole. Il genius loci tra identità e glocalizzazione”; il secondo a cura di Alfonso Cardinale, intitolato “Pensare la città, sognare il silenzio, costruire sottraendo”; il terzo, infine, a cura di Antonio Presti, intitolato “Arte come impegno etico di devozione alla Bellezza”. Sempre nell’ambito del festival nisseno, sempre in ambito culturale, urbanistico e sociale, il 14 maggio scorso, Andrea Bartoli ci aveva parlato della peculiare esperienza di “Farm cultural park” (a Favara), nel corso di un incontro, al mercato Strata ‘a foglia, intitolato “Un’altra Sicilia è possibile”.

Ma non è di questi incontri che intendo parlare – sebbene li abbia qui ricordati. Intendo parlare, invece, di ciò che avrei detto se fossi stato invitato. E d’altronde, ho dedicato e continuo a dedicare la mia vita al sogno, al progetto di una Sicilia “altra”. Ma, si sa, nessuno è profeta in patria (quantomeno da vivo). Dunque, ecco il testo del mio “intervento ombra” – comunque luminoso. Lo dedico, ovviamente, alle belle organizzatrici del festival “Sicilia dunque penso”. Il testo si potrebbe intitolare: “Sognare a occhi aperti. Paesaggio e architettura in Sicilia”.

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Questa nostra epoca caratterizzata dalla tecnologia, dalla comunicazione, dalla globalizzazione dei fenomeni e dei processi sociali, vede emergere in modo sempre più intenso, pressante, un profondo bisogno di identità e appartenenza.
L’architettura – attività umana primaria – da sempre ha la funzione di esprimere valori, qualità, bellezza, offrire risposte ai bisogni dell’individuo, della collettività. La necessità dell’uomo di “discretizzare il continuum”, separare, porre limiti, confini, dare ordine e forma al mondo, al proprio mondo, ma insieme il bisogno di conquista, di nuove sfide, di nuovi traguardi, lo hanno portato – attraverso un lungo cammino – dalla caverna preistorica al labirinto ipertecnologico della metropoli contemporanea. Oggi, nella città, nella metropoli contemporanea, la nostra condizione esistenziale, il nostro abitare, è caratterizzato da una periferia sconfinata, indefinita, in continua crescita, che riduce progressivamente l’identità e la cultura dei luoghi, delle città dei paesaggi.

Tra la necessità e il desiderio sempre più esplicito e pressante di ricomporre, di ritrovare alcune condizioni vitali, scandite da precisi rapporti tra noi ed il nostro spazio esistenziale possiamo individuare: il rapporto con il sito geografico in cui abitiamo, il rapporto con lo spazio collettivo della piazza o della strada, il rapporto con l’organismo della casa, il rapporto con gli altri uomini e donne.

Come in un testo letterario di Andrea Camilleri, una semplice espressione lessicale, ripetuta nel tempo e nello spazio, ha la forza di far riconoscere un luogo da un altro, così nel campo dell’architettura, in una certa misura, la stessa espressione formale suggerisce l’appartenenza di un manufatto architettonico ad uno specifico territorio, ad un particolare paesaggio. E così, il volume prismatico conficcato nel suolo, ritagliato da spigoli vivi e con superfici dove prevale il pieno sui vuoti, è una forma diffusa in tutto il territorio siciliano: ma, se le superfici esterne sono in malta silicea, ocra, dalla linea di terra al coronamento, quel volume costruito è proprio del Palermitano; se le pareti sono ricoperte con malta e sabbia vulcanica, azolo nero, la costruzione la ritroviamo nel Catanese; se il prisma è in pietra lavorata con ricorsi orizzontali, è tipico del Ragusano; se il prisma è ricoperto di latte di calce siamo nel Trapanese; ed infine, se la pietra è rasata da malta, il volume si ritrova nel Nisseno e nell’Ennese.

Indagare tra questa ed altre forme lessicali dell’universo costruito facilita la scoperta del nucleo vitale dell’architettura, cioè rende possibile il riconoscimento del permanere delle forme nello spazio, perpetuando l’identità di un luogo, costituita da vicende umane, storiche e linguistiche. Al tecnico, al progettista questa scoperta apre importanti prospettive di attenzione e di ricerca nei confronti dell’architettura costruita. Considerando nel suo lavoro queste permanenze – paragonate al lessico narrativo, letterario, realistico e vivido di Camilleri – egli può trarre concreto fondamento per continuare a radicare la propria opera nei rapporti antichi e nuovi del luogo, del sito in cui è stato chiamato ad intervenire. Ma l’azione del progetto non è facile, scontata, soprattutto quando si interviene nel paesaggio siciliano, così straordinariamente ricco, suggestivo, complesso. Il progettista deve evitare la furia corrosiva di una generica, superficiale “modernità”, non deve rifugiarsi nella banale ripetizione di un apparato linguistico dominante, convenzionale, mentre l’uso del nucleo vitale – proprio perché vitale – richiede un apporto di originale autenticità, di creativa rielaborazione dei simboli, delle forme e dei materiali. 
Per chi progetta nel paesaggio, la scelta del campo orografico extraurbano, non ha tanto senso e significato nella contaminazione della specificità della progettazione architettonica con quelle delle tecniche paesaggistiche, ed ancor meno con quelle ambientalistiche: nel progettare l’architettura fuori dalla città, si opera una sorta di sconfinamento che impone, al tecnico-progettista, una scelta precisa, obbligata sul concetto di città nella sua valenza culturalmente più ampia, originaria, che è il principio insediativo. 
Nel progetto di paesaggio, del paesaggio contemporaneo, poiché non si tratta della manomissione totale dell’ambiente, ma della riassunzione di esso in funzione della formazione di senso in un campo determinato, si tratterà di operare con il minimo degli spostamenti possibili e insieme, con il massimo dell’economicità figurativa dell’intervento. Anche di fronte ad uno spazio geografico altamente manipolato, il problema resterà l’individuazione del punto sensibile – il punctum, direbbe Roland Barthes – quindi l’operazione minima, consapevole, necessaria.

Prof. Leandro Janni, presidente regionale di Italia Nostra Sicilia