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Carcerati di Speranza. La visita del Vescovo ai detenuti del Malaspina di Caltanissetta

Michele Spena

Carcerati di Speranza. La visita del Vescovo ai detenuti del Malaspina di Caltanissetta

Dom, 13/05/2018 - 04:24

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Ci sono i segni della storia che passa nella Cappella del carcere Malaspina: le cornici pallidamente argentate delle stazioni della Via Crucis, nelle stampe ottocentesche appese alle pareti, l’affresco stile anni ’30 sulla parete di fondo con le sue scene di ordinaria sofferenza, il soffitto a capriate di legno ricostruito in anni più recenti dopo il crollo del tetto, e la Madonna col cuore aperto e il Bambino tra le braccia che tende la mano in una carezza promessa, al lato dell’altare.

Segnano le tappe della storia che ha abitato qui da più di un secolo con il suo lato più oscuro, con la sua società fuorilegge, illudendosi forse di rinchiuderla qui la società deviante.

Anche gli occhi dei detenuti, e i loro volti, sembrano venire da stanze diverse della storia: alcuni potrebbero essere nostri figli, giovani, dal look un po’ esasperato, ed altri anche nostri padri, fratelli, compagni. Alcuni di quegli sguardi parlano col silenzio, della rinuncia a lottare, tanti invece con lo sguardo vivo, un po’ febbrile, si espongono ad incrociare gli sguardi di chi viene dal mondo della libertà, accennando a un sorriso, che dilaga sul loro volto, appena incontrano una risposta positiva sul volto dei visitatori.

Sono stati scelti “per buona condotta” per partecipare all’incontro col Vescovo, nel 25.mo anniversario della storica visita che tra queste mura di pietra fece un grande Santo del ‘900, quel Papa, Giovanni Paolo II, che era venuto fin qui, nel cuore ormai polveroso della Sicilia, a percorrere in lungo e in largo le nostre strade per distribuire coraggio e indicare speranza a una città disorientata, che non riusciva a trovare una strada per non lasciarsi risucchiare dal declino, insidioso, silenzioso, inesorabile, come le sabbie mobili.

Lavorano ancora qui alcuni operatori che avevano partecipato all’evento, 25 anni fa, e che hanno aiutato la nuova direttrice, Francesca Fioria, fiore d’acciaio, a ricostruirne la memoria per assaporarne ancora tutto il valore, come ha detto lei stessa nel suo saluto: le assistenti sociali, gli agenti della polizia penitenziaria e qualche funzionario più anziano. Oggi sono poco più di un centinaio al Malaspina, per gestire questo piccolo universo concentrazionario che ospita in media più di 200 detenuti, alcuni in un braccio a regime di massima sicurezza, in condizioni difficili, per tutti.

Si capisce subito cosa significa il carcere, la privazione della libertà: quanto senti il rumore metallico e il tonfo dei cancelli che ti si chiudono dietro le spalle, uno dopo l’altro, attraversando i corpi di fabbrica del carcere ottocentesco, di cui ritrovi, quasi familiare, la disposizione dei grandi corridoi, con le reti distese a metà altezza e le vetrate con la griglia a scacchi che sembra di essere in un film.

Ma non si sente nessuna voce attraversando quei corridoi. I detenuti sono già seduti in Cappella, l’ingresso dei visitatori deve essere successivo, bisogna sedersi davanti ai loro banchi, ma attraversando il corridoio tra i banchi i loro sguardi interrogano e raccontano, in silenzio, il sottosuolo di una umanità che qui è innanzitutto sofferenza e attesa, e privazione della libertà.

Ci sono i cappellani, quelli che raccolgono il respiro del loro spirito nel segreto della confessione: don Giuseppe Alessi, don Enrico Schirru e don Michele Quattrocchi, il testimone della visita del Papa Santo 25 anni fa.

Ci sono autorità militari e civili sedute in prima fila, e una delegazione della Real Maestranza: tre Capitani che hanno incontrato Giovanni Paolo II, il Capitano in carica, ed altri esponenti. C’è il coro della parrocchia S. Pietro, quasi tutto femminile, che anima la funzione, e le Volontarie Vincenziane, che nel carcere dedicano il loro tempo all’integrazione dei detenuti.

È la prima cosa che dice il Vescovo, nella sua riflessione dopo la lettura del Vangelo: “Adesso in questo carcere abbiamo la possibilità di far venire anche altre persone, oltre alle autorità, il coro, altri amici e amiche che per voi, ospiti in questa casa circondariale, diventano occasione di incontro, ma anche espressione di solidarietà e di vicinanza.”

Con gli uomini privati della libertà l’azione pastorale del Vescovo ha sempre intrecciato una relazione intensa, discreta ma profonda, andando a celebrare per loro a Natale e a Pasqua, e quest’anno, ottenendo per alcuni di loro un permesso speciale per partecipare, il Giovedì Santo, alla Messa in Coena Domini, in Cattedrale, dove ha lavato loro i piedi, in memoria dell’azione di servizio di Gesù agli Apostoli nell’ultima cena.

Ma il carcere può essere un luogo di speranza? La risposta l’aveva data già 25 anni fa Giovanni Paolo II, quando aveva risposto al detenuto, omicida, che nel suo saluto iniziale aveva parlato della “nostra sofferenza di reclusi, la sofferenza che rechiamo ai nostri familiari e la sofferenza verso la parte lesa e la società” e gli aveva chiesto “Ci aiuti, Santità, a non perdere la speranza nella redenzione e nella vita”.

Il Papa Santo aveva risposto con la parola della speranza: “La speranza è come un germoglio, un nuovo inizio di vita. E i germogli possono spuntare dappertutto, anche nei luoghi più aridi, tra le rovine più abbandonate. Sperare significa fidarsi del futuro, preparandolo con pazienza, fedeli agli impegni di oggi ed animati da una fede incrollabile in Dio, che sa trarre il bene pure dal male”.

Possono valere per tutti queste parole, per tutti noi che viviamo nello spazio della libertà spesso senza abitarla con responsabilità, nei luoghi aridi della nostra passività, tra le rovine abbandonate della nostra rassegnazione.

E da queste parole del Papa Santo è ripartito il Vescovo nella sua riflessione, seguita dai detenuti con lo sguardo teso di chi sa di trovarsi in una dimensione di inedita possibilità, di chi sente che le parole che arrivano dall’autorità non cadono dall’alto e vogliono abitare nel cuore di ciascuno e lì, forse, germogliare.

“La speranza è possibile per voi, figlioli carissimi. Non dovete mai cedere alla tentazione dello scoraggiamento; non dovete lasciarvi abbattere dalle difficoltà, perché anche per voi c’è quella parola che Gesù ha pronunciato nei confronti del ladrone convertito all’ultimo momento; quel ladrone che comprende la potenza di Dio nella debolezza del volto sfigurato di Cristo Gesù. e gli rivolge una supplica: “Ricordati di me quando sarai nel tuo regno!”

E Gesù gli assicura e gli conferisce una certezza: “Oggi, sarai con me in Paradiso!” Quindi anche l’ultimo nostro respiro può essere porta di accesso al Paradiso

“Il carcere non è soltanto un luogo di castigo – ha proseguito il Vescovo – ma è un luogo di riscatto. Riscatto morale: perché la vostra vita possa davvero cambiare. E non si cambia semplicemente se cambiano le situazioni, si cambia se si converte il nostro cuore, se rinnova la nostra coscienza: è già da dentro di noi che possiamo essere uomini nuovi, uomini diversi, uomini consapevoli che dobbiamo superare le tentazioni di facili successi, che dobbiamo superare le illusioni e gli inganni della vita, e che c’è una verità nel nostro cuore ed è la verità della nostra dignità, è la verità dell’amore misericordioso di Dio che sta sempre con le braccia spalancate, alla finestra della nostra coscienza, pronto ad accoglierci, a riconciliarci con sé, a ricominciare con noi una nuova avventura di vita.

Potete ricominciare! Dio non abita in luoghi inaccessibili, Dio non abita nelle cattedrali, abita nella cappella del nostro piccolo cuore. E dunque è dentro di noi, a farci luce, a dirci “Ce la puoi fare! Puoi cambiare, puoi essere diverso dentro, dentro di te. È dentro il nostro cuore che il Signore vuole accendere la luce della speranza, il germoglio della verità, il coraggio della nostra umana dignità.

Il pastore ha parlato alle sue pecore, soprattutto smarrite, tutte, anche quelle legalmente libere ma chissà quanto prigioniere delle proprie fragilità, con il tono e lo sguardo di un padre che comprende, che sostiene, che dà coraggio, ma che chiede anche impegno, fiducia, speranza come motore di una trasformazione difficile, non come consolazione per un’anestesia dell’esistenza.

Per sostenere questa speranza di conversione interiore ha schierato la solidarietà dell’intera comunità umana che è affidata alla sua guida, consapevole, in questo luogo più che mai, che nessuno si salva da solo:

“Oggi, come 25 anni or sono, io vi dico: continuate a sperare! – ha concluso il Vescovo Non siete soli in questo non facile cammino: tutta una Chiesa, una famiglia, un popolo, è con voi; e come questo popolo esprime a voi affetto e solidarietà, così il popolo aspetta da voi un riscatto che solo ciascuno di voi può dare a se stesso. E come le vostre mamme continuano a sperare, così la grande madre della nostra vita, che è Dio misericordioso, continua a sperare e a sperare con voi, e per voi e dentro di voi.

Un carcere è un luogo concreto, umano, troppo umano. Ma è anche una metafora, un luogo della nostra anima, nella sua stanza più oscura, inaccessibile, misteriosa a noi stessi. Vivere per qualche ora il luogo fisico della privazione della libertà ce la può illuminare questa stanza oscura, metterci di fronte al valore autentico di tutto quello che ci rifiutiamo di vedere e di valorizzare della nostra vita, quando ci rifugiamo nel disimpegno della responsabilità perché non vogliamo spendere i talenti della nostra autostima spesso negata dalla rassegnazione.

Il valore di quella visita allora, del Vescovo oggi e del Santo Papa 25 anni fa, va oltre le mura di pietra di un luogo di pena e di segregazione, e può parlare alla coscienza di ognuno di noi, se ci rende capaci di “fidarci del futuro” e di vedere le sbarre, i cancelli e le mura di pietra che tengono in prigione la nostra anima e che noi non vogliamo vedere, pensando che il vuoto possa essere lo spazio della nostra libertà.

                                                         

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