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Teatro, “Binnu Blues”: tante domande senza risposta

Michele Spena

Teatro, “Binnu Blues”: tante domande senza risposta

Dom, 14/01/2018 - 15:59

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CALTANISSETTA – Il blues che ha accompagnato il canto del dolore e del riscatto dei neri schiavi in America fa da colonna sonora al “cunto” del capo di un popolo che voleva di schiavi: Bernardo Provenzano, sconfitto dalla morte alla fine, ma con tutte le domande ancora vive e in cerca di risposta. Su chi sono stati i suoi complici, su dove è finito il suo immenso tesoro, su chi gli ha permesso di tenere sotto scacco lo Stato per 43 anni di latitanza.
È questo il filo conduttore di “Binnu blues”, di e con Vincenzo Pirrotta, oratorio di teatro civile tratto dal libro “Il codice Provenzano” di Salvo Palazzolo e Michele Prestipino, il giornalista che ne ha raccontato la storia dalle pagine di Repubblica e il magistrato che ha fatto arrestare il boss. Le loro parole, scandite da Pirrotta con una vocalità drammatica travolgente, hanno raccontato e cantato una storia-simbolo della violenza del potere criminale che scuote lo spettatore con la disarmante semplicità delle domande ancora irrisolte, che chiamano in causa la coscienza di ciascuno: il significato profondo delle complicità, diffuse, che hanno lasciato che quel potere si esercitasse e che se non si ha il coraggio di rivelare consentiranno per sempre di mantenere la catena della sottomissione al collo di tutti noi.
Il potere come mostro sacro, che dispone della vita e della morte come Dio: e che si nutre della lettura della Bibbia, si sostiene con liturgie religiose, si conforta con le immagini sacre di cui si circonda, proprio per impossessarsi di quella sacralità, per pensare di potere, di dovere, “parlare come Dio” per poi agire come Dominus, tenere in pugno le vite, da schiacciare o lasciare respirare a seconda dell’astuzia dei propri interessi. Come nello sconvolgente “Padre nostro” a due voci, in cui le parole del boss fanno da contrappunto a quelle di Cristo, come se il diavolo in persona le avesse pensate e pronunciate.
È la storia violenta del boss che si trasforma nell’evoluzione del suo progetto criminale, rappresentata da Pirrotta con una fisicità capace di distillare la forza distruttiva in un agire scenico ritmato ed essenziale: dal killer feroce e sanguinario della strage di via Lazio, “u tratturi”, spietata macchina di morte capace di sparare a ritmo di massacro, al “ragioniere”, dimesso e riservato, teorico dell’inabissamento dei poteri criminali, regista calcolatore di relazioni e interessi, concentrato a tessere la sua tela di ragno su tutta l’Italia e oltre, di costruire legami politici, finanziari, e di scrivere, ossessivamente, con i suoi “pizzini”, il romanzo criminale dell’antropologia mafiosa.
Stile compito e sgrammaticato, quello dei pizzini, apparentemente poco credibile per un capo dei capi: in un italiano approssimativo e ridondante dialetto ma “logos” lucido e sottile nella scelta delle parole, più importanti della sintassi intermittente in cui sono scritte, significative di per sé, non per le concordanze grammaticali, ma per le consonanze con il non-detto degli interlocutori a cui sono rivolte.
Un ossimoro apparente la miseria del casolare in cui il boss viene scoperto e catturato: quattro mura di pietra nelle campagne di Corleone accanto a un ovile, il cui “buon pastore” gli porgerà alla fine la ricotta che ne segnalerà la presenza. Una casa contadina in cui nutrirsi di cicoria e vestirsi di cachemire, vivere da miserabile e comandare da dio, intriso di quella contraddizione che alla fine lo stritolerà nella sconfitta e che lo smaschera nella prigione che si è costruito da solo come il testimone di una vita “in nero”, che nessuno vorrà nutrire la speranza di volere imitare.
Ma non basta la negazione esistenziale del boss alla fine sconfitto per ritrovare la speranza. La catarsi liberatoria non c’è nel finale del “Binnu blues”: non si esce rasserenati dal teatro ma carichi delle domande su tutto quello che non è stato ancora spiegato, e che non possiamo pensare di archiviare o di rimuovere senza sentirci complici e coinvolti, in prima persona, a partire dalla nostra coscienza.