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Prima nazionale al Margherita per “Giovanna d’Arco/‘a Santuzza” di Aldo Rapè: tessitura complessa della storia di un popolo

Michele Spena

Prima nazionale al Margherita per “Giovanna d’Arco/‘a Santuzza” di Aldo Rapè: tessitura complessa della storia di un popolo

Lun, 04/12/2017 - 08:46

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CALTANISSETTA – C’è la luce di Caravaggio sulla scena di “Giovanna d’Arco/’a Santuzza”, l’ultimo lavoro di Aldo Rapè in prima nazionale ieri sera al “Margherita”, tessitura complessa di una identità collettiva che si esprime intorno al nodo del sacro con una forza visionaria estremamente suggestiva, che i contrasti della luce sottolineano meglio di tante parole.
La vicenda di Giovanna d’Arco, giovane contadina francese che durante la guerra dei Cent’anni guida il popolo contro gli inglesi invasori per finire poi catturata, accusata di eresia e stregoneria e bruciata viva dall’Inquisizione, si sovrappone alla Passione di Cristo: stesso processo, stessa croce, stessa Via Crucis e stessa persecuzione del potere, per i due archetipi della sofferenza in cui il popolo riconosce la propria identità, con la forza del sacro, da sempre.
Il contesto è quello di una famiglia matriarcale, nella Sicilia profonda in cui sacro e profano, innocenza e superstizione si intrecciano inestricabilmente nell’immaginario e nei comportamenti collettivi; l’occasione è la festa della Santa patrona, la Santuzza appunto, icona delle Vergini patrone delle città principali della Sicilia, tutte segnate dal martirio, come Giovanna, santificata dalla Chiesa dopo cinque secoli, nel 1920, e oggi patrona della Francia.
Un universo femminile complesso e turbinoso per rappresentare gli archetipi primordiali che generano le identità popolari, con una figura androgina a impersonare l’autorità, dal processo inquisitorio alla direzione della famiglia, un potere che non cammina sulle sue gambe, ma si muove su una sedia rotelle da cui scende e cade ma riesce sempre a risalire alla guida di se stessa.
Un potere autoreferenziale che dispensa l’incenso della sacralizzazione, travolto nelle esplosioni di furore collettivo e della guerra di liberazione, ma poi sempre capace di ritornare al suo posto. Un potere intorno a cui si muovono sia le donne che le voci misteriose con solennità rituale, evocando le streghe del Macbeth o le folli di dolore di Emma Dante.
L’immaginario popolare della Settimana Santa è dispiegato in scena con tutta la sua potenza evocativa: le stazioni della Via Crucis delle Vare nel percorso faticoso di Giovanna, la Maestranza-società civile con i cambi dei guanti a segnare le tappe del percorso, e la Santuzza portata in processione ai piedi della Croce, icona spoglia che dopo la caduta dalla Vara, spezzata irreparabilmente dalla scompostezza del movimento popolare, finirà conservata in uno zaino da viaggio, al centro della scena, bagaglio da tramandare alle generazioni che verranno, così come in scena si trovava all’inizio dell’azione, scoperto e illuminato da un commando di guerrieri alieni usciti dalle retrovie del tempo.
Ma il tramite più autentico del rapporto misterioso tra il sacro è l’umano è San Michele, la cui voce Giovanna d’Arco diceva di sentire nel bosco del suo villaggio, qui marionetta evanescente con cui Giovanna dialoga silenziosamente, in una danza sempre più vorticosa che la fa volare insieme all’Arcangelo al ritmo di una musica travolgente che rende superflua ogni parola. Per finire poi stremato su una carrozzella, contraltare parallelo alla sedia a rotelle su cui si muove l’autorità.
Tutte donne le attrici che si sono alternate nel ruolo di Giovanna, Giovanna simbolo di tutto un popolo, alla fine crocifissa e bruciata sull’altare delle giaculatorie, ripetute ossessivamente all’inizio e alla fine della vicenda: altare-teatro, altare-baiardo della vara, altare-Golgota, altare-cavallo per la battaglia, è l’unico elemento in scena a fare contrasto con la partitura nera delle quinte e delle luci.
Le musiche sono parte integrante dell’impianto drammaturgico: musiche originali di Aldo Giordano e arrangiamenti suggestivi di temi popolari, che scandiscono le fasi emotive con la forza di una connotazione inequivocabile. Sono l’elemento ricco di un contesto che parla invece di povertà, di dolore straziante, di sottomissione e di violenza, esprimendone il respiro profondo che l’umanità si tramanda anche senza parole, da secoli, ma sempre con il battito condiviso delle proprie emozioni. E senza retorica, alternando il registro dell’epica e quello dell’ironia, come è tipico del popolo siciliano.
C’è questa pulsione identitaria inequivocabile a fare da filo conduttore e a rendere leggibile una partitura simbolica complessa, in cui ogni spettatore può riconoscere almeno una parte di sé, della propria storia, delle proprie emozioni, del respiro comunitario in cui si è formato, è cresciuto, o è fuggito.
Nel volo di San Michele o nell’ondeggiare ritmato della Vara ci si immerge nella musica della storia di un popolo, della nostra storia: e non è mai una storia di solitudini, anche se accompagna un martirio.