Salute

“Solo se c’è la Luna”, selezionato per il premio Campiello l’ultimo romanzo di Silvana Grasso. La recensione di Fiorella Falci

Michele Spena

“Solo se c’è la Luna”, selezionato per il premio Campiello l’ultimo romanzo di Silvana Grasso. La recensione di Fiorella Falci

Dom, 19/03/2017 - 23:09

Condividi su:

CALTANISSETTA – È uno specchio piantato davanti al nostro inconscio “Solo se c’è la luna”, ultimo romanzo, straordinario, di Silvana Grasso, in cui le profondità più inconfessabili di uomini e donne vengono squadernate sotto i nostri occhi di lettori con potenza inquietante ed inequivocabile, senza spazi di assoluzione né di consolazione per nessuna forma di perbenismo o di moderata mediocrità.

È una storia che gioca sul filo del rasoio tra la normalità/eccellenza borghese, inseguita, presunta, simulata, enfatizzata oltre ogni misura dal protagonista/antagonista maschile, Gerri l’americano, ex manovale che ha fatto fortuna in America e torna in Sicilia a sposarsi ed esibire la sua ricchezza e il suo successo, come il Plutone del “Ratto di Proserpina” di Rosso di San Secondo, altrettanto espressionista ed esplicito, archetipo tribale di un capitalismo primigenio, quasi mitologico, da un lato, e dall’altro la vita capovolta delle protagoniste femminili: Gelsomina, Luna e Gioiella, donne che non hanno nomi di sante, segnate dalla luna come mistero generativo, tutto fuorché “normali”, nei corpi e nella psiche, alternative, dissonanti, notturne e insondabili, padrone di un tempo interiore, irraggiungibile e intangibile dai maschi che le circondano cercando di possederne l’anima, insieme al corpo, ma capaci soltanto di comprare e vendere, di prendere, di rubare.
E il filo del rasoio continua a dividere un linguaggio esplicito, capace di entrare nella testa dei personaggi e tirarne fuori l’ossessione sessuale che ne scandisce l’intercalare in ogni pensiero, e un erotismo intensissimo quanto spirituale, quello dell’amore ideale di Gelsomina e del desiderio amoroso di Gioiella per Luna, travolgente come un’estasi mistica quanto deciso nel non voler consumare il pensiero in azione, il desiderio in carnalità, per non strapparlo dalle sue radici invisibili, quasi metafisiche, incompatibili con la corporeità.
Il corpo, i corpi, sono gli spazi della comunicazione o dell’incomunicabilità totale dei personaggi e tra i personaggi, e della rappresentazione della loro identità. Dal corpo di Luna segnato dalla malattia sconosciuta che fa della luce del sole il suo assassino, al corpo di Gioiella così estraneo alla sua vita interiore, al corpo di Gelsomina nei dolori del parto e nei corpi di pietra, di legno, di sughero che scolpisce come linguaggio espressivo al posto delle parole che non dice e che poi diventano anche loro lavoro, produzione e insieme libertà.
Ma sarà proprio una di quelle sculture, un Crocifisso sorridente e paradossale, regalato alla figlia prima di scomparire dalla sua vita, che chiuderà il cerchio tragico dell’esistenza capovolta di Luna, che sfiderà il sole assassino proprio per ritrovarlo.
La maternità è il filo sottotraccia che si dipana a costruire il senso della narrazione: quella di Gelsomina che partorisce Luna stravolgendo la sua vita e accompagnandola come assenza-presenza, nascosta; quella della madre di Gioiella, segnata dall’abbandono e dall’inganno; quella interessata e strumentale della zia di Luna, Ciccina Frensis, funzionale soltanto al reddito che ne ricava.
Maternità svelata nelle sue declinazioni meno retoriche, meno scontate, più determinanti per il nostro soffrire; maternità struttura fondamentale di ogni relazione umana e insieme distacco, solitudine, interfaccia lunare della solare arroganza maschile che cosifica tutto, tutto traduce in denaro, nel bisinèss che è la vita di Gerri, mastro don Gesualdo contemporaneo, archetipo del padrone globale, che decide la vita di chi lavora per lui e tutto deforma in termini di marchetìnghi.
Ma c’è un’altra maternità, più misteriosa, archetipo di tutte le maternità dell’universo, ma traslitterata secondo i codici della mitologia generatrice e verginale: la Madonna-luna, che Gelsomina vede nei dolori del parto e a cui affida la figlia quando ancora non sa che soltanto alla luce della luna lei potrà vivere, per sempre, per il male sconosciuto che porta nascosto dentro.
Mitologia e spiritualità si intrecciano in questa simbologia mariana e lunare, capace di proteggere la vita con la forza di entrambe, ma soltanto se insieme e non in contraddizione, così come insieme si intreccia, per potere parlare della passione d’amore di Gioiella, l’eco della lirica appassionata di Saffo e la forza dionisiaca, incontenibile, del desiderio, scandita dal ritmo di una prosa metrica, musicale, attenta ai suoni, oltre che ai significati, che la lingua produce.
Ma l’amore che muove l’azione dei personaggi non è mai disincarnato e neppure soltanto pulsione sessuale, così come il linguaggio che lo racconta: è il tessuto inestricabile del nostro vissuto che in quell’intreccio si può riconoscere, non senza fatica, perché non si può guardare nello specchio dell’inconscio senza dolore, ma senza ipocrisia né opportunistica sublimazione. Semplicemente così come scorre nei nostri pensieri anche quando non ce ne accorgiamo, o non ce ne vogliamo accorgere perché ci interroga sul simulacro che ognuno costruisce di se stesso.
E dentro i pensieri non detti, dentro la mente segreta di uomini e donne l’autrice riesce ad entrare profondamente, nella loro visione antitetica, come solo i grandi scrittori sanno fare, senza ammiccamenti né facile autobiografismo.
Sulla scrittura traboccante e fascinosa di Silvana Grasso più di duecento tesi di laurea sono già state discusse nelle università di tutto il mondo; di recente anche in Tunisia, da due studentesse col burka, tanto dissonanti apparentemente rispetto alla tensione erotica, esplicita, che pulsa nei suoi romanzi.
“Io non le ho viste mai, dietro quel burka, ma loro hanno visto me nella scrittura” ha raccontato l’autrice durante la presentazione del suo romanzo, intervistata da Ivana Baiunco nell’aula magna dell’ITAS “Luigi Russo” di Caltanissetta; “la scrittura deve molestare la nostra letargia – ha concluso – e fare parlare lo tsunami emotivo che è dentro di noi”.
In tempi di post-verità, di verità nascoste, di verità negate, la letteratura può essere ancora capace di raccontare la verità.