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“E’ la scuola che può indicare la strada per uscire dalla crisi”

Michele Spena

“E’ la scuola che può indicare la strada per uscire dalla crisi”

Dom, 01/03/2015 - 23:13

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La-stradaCALTANISSETTA – Quando un sistema sociale dà valore alla scuola significa che sta crescendo, vuole svilupparsi, economicamente prima ancora che culturalmente. E’ un luogo comune infatti pensare alla scuola come ad una istituzione utile a “trasmettere” un patrimonio culturale del passato, una tradizione che pensa alla storia come “magistra vitae”, un pantheon di princìpi e di valori fondamentale per l’identità di un popolo ma sostanzialmente legato al passato.
La scuola invece, almeno in Italia, ha conosciuto i suoi momenti migliori a prescindere dai contenuti e dalle discipline che vi si insegnavano, nelle fasi di svolta e di crescita del Paese, nei momenti difficili in cui ci si impegnava a costruire o a ricostruire l’Italia, sin dalla sua fondazione.
Dopo l’Unità l’Italia non era molto più di un’espressione geografica, con buona pace della retorica patriottarda di un Risorgimento scritto dalla parte dei vincitori: gli Italiani non parlavano la stessa lingua dei libri di letteratura, non sapevano leggere e scrivere nella stragrande maggioranza, non si identificavano con lo Stato nuovo che aveva sostituito i vecchi regni.
Il primo intervento di welfare dell’Italia unita ha riguardato proprio la scuola: le prime classi elementari obbligatorie e gratuite per tutti, con le leggi Casati e Coppino, hanno unito il Paese molto più che le guerre d’indipendenza, sono state le basi per la nascita di una nazione, per l’identità collettiva di un popolo.
La riforma Gentile, nel 1923, ha ridisegnato il sistema scolastico nel suo complesso, costruendo i percorsi formativi di una società che il fascismo voleva “modernizzare” e massificare, ma con gerarchie che si andavano sganciando dai vecchi meccanismi del notabilato aristocratico e liberale, e si ancoravano alla qualità dell’istruzione e delle nuove competenze professionali.
La scuola gentiliana era pensata come funzionale ad un disegno che faceva del ceto medio, costruito e alimentato dai processi di scolarizzazione, il perno della società che il regime voleva dominare, rendendola al tempo stesso “popolare” e gerarchica, fondata su istituzioni di massa che proprio dall’età scolare partivano, in parallelo con la scuola e penetrandone l’articolazione: dai “figli della lupa”, ai “balilla”, fino ai GUF, in “ogni ordine e grado”.
Quella scuola formava e piegava al senso della gerarchia “scalabile”, selettiva, di classe certamente, ma anche meritocratica: l’unico “ascensore sociale” che i figli del popolo potevano utilizzare, per cambiare la propria condizione, uscire dalla povertà, diventare classe dirigente. O anche soltanto vivere meglio di quanto non avessero potuto i propri genitori.
Il dopoguerra, la ricostruzione economica e democratica dell’Italia, capace di passare in quindici anni da nazione contadina sconfitta a potenza industriale tra le prime dieci del mondo, ha visto la scuola protagonista assoluta di un processo di inclusione e di promozione sociale senza precedenti per ampiezza e profondità. La scuola media unificata obbligatoria per tutti e la fine della vergogna dell’”avviamento professionale”, (il ghetto di chi era destinato “ad metalla”) ha sancito una svolta che avrebbe reso inconcepibili nel futuro le disuguaglianze e le discriminazioni che un popolo senza istruzione e senza cultura condivisa inevitabilmente è costretto a subire.
Tutta la profondità della crisi attuale della società italiana, la sua afasia, l’appiattimento della sua intelligenza critica, l’abbassamento preoccupante del livello culturale ed etico della sua classe dirigente, si leggono con implacabile chiarezza nel disvalore che alla scuola è riconosciuto, nella perdita di prestigio dei suoi docenti come riferimenti sociali e autorità morali delle giovani generazioni e non solo, nella riduzione dell’orizzonte educativo e culturale del sistema scolastico a logiche aziendalistiche di efficienza, burocratizzate e sganciate dalla prospettiva formativa di chi assume la “mission” di alimentare la capacità di pensare e di sognare quello che non c’è ancora.
Non è una questione di aggiornamento dei contenuti, ma di consapevolezza delle finalità, rispetto alle quali i contenuti, le materie, i metodi didattici, le tecnologie, l’informatica, le LIM, possono essere soltanto strumentali.
I licei classici formavano anche ottimi scienziati studiando il greco e la filosofia, non perché fosse importante ricordare gli aoristi o i sillogismi medioevali, ma perché erano una dura palestra di ricerca del significato delle cose, di comprensione del senso della realtà, di capacità di interpretazione e di giudizio critico. Anche quando sembrava che si occupassero di un mondo scomparso per sempre.
Non è un caso se anche la classe dirigente che ha guidato le istituzioni democratiche del Paese aveva un radicamento forte nel mondo della scuola. Tra i deputati eletti dal nostro territorio nelle prime legislature del parlamento repubblicano almeno la metà proveniva dal mondo delle cattedre: Francesco Pignatone e Angelo Di Rocco, Luigi Arnone e Giuseppe Granata, Arcangelo Russo, erano stati educatori prima che legislatori. E la differenza con i legislatori di oggi è drammaticamente evidente.
Oggi la “mission” che la scuola ricava dall’analisi della società per cui lavora dovrebbe rilanciare, a partire dai docenti innanzitutto, la responsabilità di formare la struttura pensante e decisionale della società, il valore morale di formare cittadini liberi e consapevoli, non docili consumatori di prodotti e di comportamenti massificati.
I linguaggi che a scuola si apprendono, in tutte le discipline, andrebbero padroneggiati, decodificati in profondità, smontati nel loro potere omologante al potere di chi detiene le chiavi della comunicazione sociale e dell’ economia.
Non solo sapere, non solo informazione, non solo tecnologie, ma pensare, interpretare, esprimersi, relazionarsi consapevolmente, educarsi all’autodominio, alla gestione non violenta dei conflitti. Senza simulare l’obbedienza dell’opportunità, come spesso vediamo fare anche ai nostri studenti, ma valorizzando la generosità e il coraggio delle proprie idee, che la scuola dovrebbe insegnare a sostenere, oltre che a elaborare.
Il frutto del nostro lavoro di docenti dovrebbero essere persone libere e determinate, capaci di mettersi in gioco non solo per guadagnare qualcosa, ma per costruire e realizzare i propri sogni. Ricche di un’autostima che non si trasformi in narcisismo egoistico, ma nella consapevolezza delle occasioni che solo la nostra responsabilità può trasformare in un futuro felice.
Non possiamo accontentarci di fare crescere giovani obbedienti e conformisti, coscienze illeggibili persino a se stesse, inquadrati nei binari opachi anche se lucrosi della “banalità del male”. Così possono diventare soltanto pecore o serpenti. Il futuro ha bisogno invece di tutta la loro libertà.

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