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Le riflessioni di Richelieu:”in Sicilia va forte l’economia dell’assenza”

Redazione

Le riflessioni di Richelieu:”in Sicilia va forte l’economia dell’assenza”

Gio, 31/07/2014 - 01:17

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imageE adesso se ne  andrà anche la Camera di Commercio?

UnionCamere regionale ha annunciato (approvata all’unanimità) la riduzione delle Camere di Commercio siciliane da 9 a 3 (non più una per provincia), in nome della “spending review” governativa che impone di “accorpare” uffici ed enti periferici dello Stato;  e in una regione dove ci sono già tre aree metropolitane oltre alle 9 province, Caltanissetta ha ben poche speranze di essere sede di una delle tre Camere di Commercio che dovranno essere individuate entro il prossimo autunno.

Il motivo vero forse lo si legge tra le righe del comunicato stampa di UnionCamere (riportato identico e senza variazioni e commenti da tutti i media che hanno dato la notizia): i loro dipendenti,non come avviene nel resto d’Italia, dipendono per le loro pensioni dai bilanci delle rispettive istituzioni, e quindi, come si legge, “Il riordino del sistema camerale siciliano è, in ogni caso, strettamente legato al nodo del sistema pensionistico dei dipendenti delle Camere di commercio siciliane che, per disposizioni della Regione siciliana e a differenza del resto d’Italia, sono totalmente a carico dei bilanci camerali. (…) È bene che il governo regionale si faccia carico del problema e trovi una soluzione senza la quale qualsiasi tipo di riorganizzazione e accorpamento sarà vanificato”.

E figuriamoci! La Regione serve a pagare, pardon! a “farsi carico” dei problemi del mondo imprenditoriale e della razionalizzazione delle istituzioni economiche. Ma quanto a poteri decisionali, gli imprenditori sono fermi al liberismo classico ottocentesco: “laissez faire” assoluto, senza intromissioni, o, peggio, come dicono loro, “ostacoli burocratici”.

Ma il Governo del Presidente Crocetta, generato e partorito dall’unione feconda di imprenditori e sindacati, sinistra, centro e democratici, antimafia e mafia dell’antimafia, non doveva risolvere con lungimirante intelligenza politica e poderosa progettualità imprenditoriale i problemi dello sviluppo della Sicilia, coniugando, come si salmodiava in una giaculatoria ormai anche nelle novenenatalizie, “legalità e sviluppo”?

E invece, dopo un anno, non si parlano più! Anzi.

Il petrolio li ha separati, forse per sempre! Lo abbiamo visto a Gela. E a Roma.

In queste settimane il Presidente siciliano di UnionCamere, nonché della Camera di Commercio di Caltanissetta, nonché Presidente regionale di Confindustria, (di cui è Delegato nazionale per la Legalità), nonché Cavaliere del Lavoro, imperversa sui mass media (più del solito), spaziando dalla firma di nuovi protocolli d’intesa sulla legalità alle polemiche sul caso ENI-Gela per prendere le difese d’ufficio dell’ENI, Ente di Stato, presieduto da Emma Marcegaglia, il cui piano industriale, afferma, “si deve saper leggere”prima di criticare, bacchettando  la burocrazia, indicata come unica colpevole degli ostacoli che ostacolano il dinamismo delle imprese, con la continua richiesta di autorizzazioni e di controlli pretestuosi.

Se Confindustria Sicilia avesse voluto svolgere (o fosse in grado di farlo) un vero ruolo di classe dirigente, rappresentativa degli interessi più vasti dell’economia produttiva in un  territorio da risanare dall’inquinamento e liberare dalla criminalità mafiosa, avrebbe potuto aprire una fase nuova di elaborazione e di proposta su cosa deve essere l’industrializzazione nella nostra isola, dopo le dismissioni brutali della FIAT a Termini (su cui il silenzio di Confindustria è stato assordante!), e adesso, dopo l’annuncio della volontà del colosso petrolifero di Stato di chiudere e abbandonare i siti siciliani, lasciando naturalmente sul posto tonnellate di ferraglia inquinante come monumenti di “archeologia industriale”, sulla costa dove i Greci, millenni fa, avevano costruito ben altri templi della loro civiltà.

Di fronte ai processi di disgregazione del modello industriale post-bellico in Sicilia, quali progetti di politica industriale sono stati partoriti in questi anni dagli strateghi dell’imprenditoria di tendenza, quali capacità alternative al fallimento delle vecchie politiche assistite sono state dimostrate sul mercato della produzione e del lavoro di questa loro Regione?

In anni molto più difficili di questi nostri, gli industriali siciliani, guidati con intelligenza politica e serietà imprenditoriale da Domenico La Cavera,  hanno saputo interloquire con lo Stato, la Regione e i grandi gruppi industriali del nord,  compresa l’ENI e la Montecatini, hanno saputo svolgere un ruolo di classe dirigente, non da rotocalco ma da libro di storia.

Si era aperta negli anni ’50 una fase ricca e interessante per l’economia siciliana, che poi l’errore fatale della “Regione imprenditrice” voluta dal mondo politico di quel tempo, la tentazione dirigista e giacobina di cambiare la società dal “Palazzo” faceva naufragare, depotenziando le forze autenticamente produttive e lasciando alla mafia grandi spazi di speculazione e di affari.

Proprio a cominciare dall’ENI e da Gela, da cui partì Enrico Mattei con l’aereo su cui sarebbe “misteriosamente” saltato in aria sul cielo di Bescapè, nel 1962. Da quell’ENI nel cui indotto gli interessi della criminalità mafiosa si sono insediati sin dalle origini. Da quell’ENI che oggi in Sicilia vuole continuare ad avere le concessioni di ricerca e trivellazione portandosi lontano il greggio da raffinare, dopo avere fatto della Sicilia la pattumiera dell’Europa mediterranea, e andare a pagare le sue tasse altrove.

Di fronte a tutto questo, non penso che il problema sia quello di “saper leggere i piani industriali”, come sostiene Confindustria con aria di sufficienza. Basta saper leggere la storia degli ultimi cinquant’anni per comprendere qual è la direzione.

Oggi sarebbe molto più utile alla Sicilia saperli scrivere, i piani industriali, anche con il supporto di Confindustria che dovrebbe saper svolgere, anche per l’autorevolezza che ha sul piano nazionale, esempio luminoso di “economia della legalità” (ricordiamo gli “apostoli” del ministro Cancellieri?),almeno un ruolo di moral suasion, di orientamento, di vigilanza e garanzia, che le consentirebbe di essere punto di riferimento riconosciuto di tutte le forze sociali e politiche.

La serietà dell’impegno per un’economia liberata dall’ipoteca mafiosa si misura con indicatori concreti, in termini di investimenti sul territorio, nuovi posti di lavoro, progettualità di riconversione e diversificazione delle imprese, non con l’album dei comunicati stampa, delle interviste, o dei protocolli d’intesa ai tavoli delle Prefetture, buoni per la foto-ricordo ma non per trasformare la vita e il futuro delle comunità senza lavoro e senza prospettiva.

Quanto all’antimafia parolaia, da quanti anni sentiamo le filippiche politico-imprenditoriali sulle zone franche e zone urbane per la legalità, come saldatura portentosa di legalità e sviluppo, capaci di capovolgere la dipendenza secolare dall’economia criminale che da sempre ha schiacciato la Sicilia, ma qui, nel  territorio d’origine di un piccolo impero economico che si è sviluppato molto più al Nord e nei vari Consigli di Amministrazione, non se n’è ancora vista neppure l’ombra.

E qui la disoccupazione giovanile segna il record nazionale, la grande industria di Stato smantella la raffineria di Gela e le imprese artigiane e commerciali abbassano le loro saracinesche per sempre.

E’ una grande economia dell’assenza, quella della Sicilia di oggi. Assenza di insediamenti e di progetti industriali, ma soprattutto assenza di idee e di capacità di modernizzazione economica, di quegli “insight” che accendono la mente e l’entusiasmo degli imprenditori veri quando sanno pensare e agire trasformando l’economia, portando avanti la società in cui operano, di cui sanno essere il motore, realizzando profitti sani e reinvestimenti sul territorio, non speculazioni “mordi e fuggi”.

Qui anche l’unica grande impresa nissena, leader nazionale nel suo settore, ha preferito scomparire, vendere, per “Campari”! Rinunciando alla propria identità imprenditoriale, e, lasciatemi dire, al proprio onore, per sopravvivere in famiglia agiatamente e senza troppe preoccupazioni.

Una classe dirigente si misura dalla capacità di guidare la propria società trasformandola in meglio, non dall’attendere, pontificando, che qualcun altro faccia qualcosa.

Noi aspettiamo ancora di conoscere, in Sicilia, imprenditori “presenti”, e capaci.

Richelieu Richelieu

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